La metafisica è una conoscenza speculativa della ragione, del tutto isolata, che si innalza totalmente al di sopra dell’ammaestramento dell’esperienza e fa ciò, a dire il vero, mediante semplici concetti … in essa dunque la ragione stessa deve essere la scolara di se medesima. La metafisica non ha avuto sinora un destino tanto favorevole, da permetterle di prendere la via sicura di una scienza; eppure essa è più antica di tutte le altre scienze e sussisterebbe ancora, quand’anche le altre tutte insieme dovessero venire completamente inghiottite nell’abisso di una barbarie che sterminasse ogni cosa. In essa, difatti, la ragione si arena continuamente, persino quando vuole scorgere a priori (tale è la sua pretesa) quelle leggi, che sono confermate dalla più comune esperienza. Nella metafisica si deve ripercorrere indietro la strada infinite volte, poiché si scopre che il cammino non conduce nella direzione voluta. E per quanto riguarda la concordia nelle affermazioni dei suoi seguaci, essa è ancora così lontana dall’averla raggiunta, che risulta piuttosto un campo di battaglia: quest’ultimo sembra propriamente destinato ad esercitare le forze dei partecipanti in un combattimento fittizio, in cui sinora nessun combattente è mai riuscito a conquistarsi neppure il più piccolo vantaggio territoriale e a fondare sulla sua vittoria un possesso durevole. Non vi è dunque alcun dubbio che il modo di procedere della metafisica sia stato sinora un semplice brancolare, e quel che è peggio, un camminare a tastoni tra semplici concetti. Orbene, da cosa dipende il fatto che in questo campo non abbia ancora potuto essere trovata alcuna via sicura che porti alla scienza?
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Si è ritenuto sinora che ogni nostra conoscenza debba regolarsi secondo gli oggetti: tutti i tentativi di stabilire su di essi, attraverso concetti, qualcosa a priori, mediante cui fosse allargata la nostra conoscenza, caddero tuttavia, dato tale presupposto, nel nulla. Per una volta si tenti dunque, se nei problemi della metafisica possiamo procedere meglio, ritenendo che gli oggetti debbano conformarsi alla nostra conoscenza. Già così, tutto si accorda meglio con la desiderata possibilità di una conoscenza a priori degli oggetti, la quale voglia stabilire qualcosa su di essi, prima che ci vengano dati. La situazione al riguardo è la stessa che si è presentata con i primi pensieri di Copernico: costui, poiché spiegazione dei movimenti celesti non procedeva in modo soddisfacente, sino a che egli sosteneva che tutto quanto l’ordinamento delle stelle ruotasse attorno allo spettatore, cercò se la cosa non potesse riuscire meglio, quando egli facesse ruotare lo spettatore e facesse per contro star ferme le stelle. Nella metafisica, orbene, si può fare un analogo tentativo, per quanto riguarda l’intuizione degli oggetti. Se l’intuizione dovesse conformarsi alla struttura degli oggetti, io non riesco allora a vedere, come di essa si potrebbe sapere qualcosa a priori; ma se l’oggetto (in quanto oggetto dei sensi) si conforma alla struttura della nostra facoltà di intuizione, io posso rappresentarmi benissimo questa possibilità.
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Questa deduzione della nostra facoltà di conoscere a priori porta tuttavia, nella prima parte della metafisica, ad un risultato sorprendente, e all’apparenza assai dannoso all’intero proposito della metafisica …….: cioè che con tale facoltà non possiamo mai oltrepassare il limite di un’esperienza possibile, mentre proprio questo è ciò che interessa nel modo più essenziale tale scienza. Proprio qui, peraltro, la verità del risultato di quel primo apprezzamento della nostra conoscenza a priori della ragione viene sperimentata mediante una controprova, consistente cioè nel fatto che la conoscenza della ragione si rivolge soltanto ad apparenze, lasciando per contro che la cosa in sé certo sussista come per sé reale, ma sia da noi sconosciuta. Ciò che ci spinge necessariamente a oltrepassare il limite dell’esperienza e di tutte le apparenze è infatti l’incondizionato, che rispetto ad ogni oggetto condizionato la ragione esige, necessariamente e a buon diritto, nelle cose in se stesse, pretendendo in tal modo la compiutezza della serie delle condizioni. Orbene, se quando si ritiene che la nostra conoscenza di esperienza si conformi agli oggetti in quanto cose in se stesse, risulta che l’incondizionato non può affatto venir pensato senza contraddizione, e per contro, se quando si ritiene che la nostra rappresentazione delle cose, come ci sono date, non si conformi a queste in quanto cose in se stesse, ma che questi oggetti piuttosto, in quanto apparenze, si conformino al nostro modo di rappresentazione, risulta invece che la contraddizione cade, e che di conseguenza, l’incondizionato non deve ritrovarsi nelle cose, in quanto noi le conosciamo (cioè in quanto ci sono date), bensì deve ritrovarsi in esse, in tal caso appare chiara la fondatezza di ciò che da principio abbiamo assunto unicamente a scopo di tentativo.
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L’assunto di questa critica della ragione pura speculativa, ordunque, consiste nel suddetto tentativo di trasformare quello che è stato sinora il modo di procedere della metafisica, e di far ciò operando su di questa una completa rivoluzione, secondo l’esempio dei geometri e degli indagatori della natura. Tale critica è un trattato del metodo, non un sistema della scienza stessa, ma nondimeno essa traccia un disegno compiuto della scienza, sia riguardo ai suoi limiti, sia anche riguardo a tutta quanta la sua articolazione interna.
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Tuttavia, si domanderà, che tesoro è mai quello, che pensiamo di lasciare alla posterità e che consiste in una tale metafisica, purificata mediante la critica, ma in tal modo portata anche in una situazione statica? Con un fuggevole sguardo dato a quest’opera, si crederà di osservare che la sua è un’utilità soltanto negativa, nell’impedire cioè che noi ci avventuriamo mai con la ragione speculativa al di là del limite dell’esperienza: del resto, tale è in realtà il suo primo beneficio. Questa utilità diventa però ben presto positiva, quando ci si accorge che le proposizioni fondamentali, con le quali la ragione speculativa si avventura al di là del suo confine, in realtà non producono un ampliamento nell’uso della nostra ragione, ma quando le si considera più da vicino, hanno come inevitabile conseguenza una restrizione di tale uso, poiché esse minacciano di estendere davvero a tutto quanto i limiti della sensibilità, alla quale propriamente appartengono, e di sopprimere così del tutto l’uso puro (pratico) della ragione. Una critica, quindi, che restringe la ragione pura speculativa, certo è in quanto tale, negativa, ma poiché elimina al tempo stesso un ostacolo, che restringe l’uso pratico, o addirittura minaccia di annullarlo, essa di fatto ha un’utilità positiva e assai rilevante, non appena ci si convinca che sussiste un uso pratico assolutamente necessario, della ragione pura (l’uso morale), nel quale essa si estende inevitabilmente al di là dei limiti della sensibilità.
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Nella parte analitica della critica viene dimostrato che spazio e tempo sono soltanto forme dell’intuizione sensibile, e quindi soltanto condizioni dell’esistenza delle cose in quanto apparenze; che inoltre noi non abbiamo alcun concetto dell’intelletto, e perciò neppure un qualsiasi elemento per la conoscenza delle cose, se non in quanto possa venir data un’intuizione corrispondente a questi concetti; di conseguenza, che noi non possiamo aver conoscenza di alcun oggetto in quanto cosa in se stessa, ma solo in quanto è oggetto dell’intuizione sensibile, cioè in quanto apparenza. Di qui segue allora certamente, che ogni possibile conoscenza speculativa della ragione è ristretta ai semplici oggetti dell’esperienza. Nondimeno viene pur sempre fatta al riguardo una riserva, che occorre tener bene a mente: proprio quei medesimi oggetti, noi dobbiamo almeno avere la possibilità di pensarli anche come cose in se stesse, per quanto non possiamo conoscerli come tali. Altrimenti infatti deriverebbe da ciò la proposizione assurda, che sussiste un’apparenza senza un qualcosa che in essa appaia.
Kant, Critica della ragione pura, prefazione seconda edizione
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