“Il mondo è la mia rappresentazione”: questa è una verità che vale in rapporto a ciascun essere vivente e conoscente, sebbene l’uomo soltanto sia capace di accoglierla nella riflessa, astratta coscienza; se egli veramente fa questo, con ciò è penetrata in lui la meditazione filosofica. Per lui diventa allora chiaro e ben certo, che egli non conosce né il sole né la terra, ma appena un occhio, il quale vede un sole, una mano, la quale sente una terra: che il mondo da cui è circondato non esiste se non come rappresentazione, vale a dire sempre e dappertutto in rapporto a un altro, a colui che rappresenta, il quale è lui stesso. Se mai una verità può venire enunciata a priori è appunto questa: essendo l’espressione di quella forma di ogni possibile e immaginabile esperienza, la quale è più universale di tutte le altre forme, più che tempo, spazio e causalità; poi che tutte queste presuppongono appunto quella.
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Nessuna verità è dunque più certa, più indipendente da ogni altra, nessuna ha minor bisogno di essere provata, di questa: che tutto ciò che esiste per la conoscenza – dunque questo mondo intero -è solamente oggetto in rapporto al soggetto, intuizione di chi intuisce; in una parola, rappresentazione.
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Tutto quanto è compreso e può essere compreso nel mondo, deve inevitabilmente avere per condizione il soggetto, ed esiste solo per il soggetto. Il mondo è rappresentazione.
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Che nondimeno questa considerazione, malgrado la sua verità, sia unilaterale, e quindi ottenuta mediante un’astrazione arbitraria, è fatto palese a ciascuno dall’intima riluttanza che prova a concepire il mondo soltanto come sua pura rappresentazione; al quale concetto, d’altra parte, non può mai e poi mai sottrarsi. Ma l’unilateralità di questa considerazione verrà integrata … con un’altra verità, la quale … deve apparire molto grave e per ognuno, se non proprio paurosa, almeno meritevole di riflessione: ossia questa, che egli appunto può dire e deve dire: “il mondo è la mia volontà”.
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Quello che tutto conosce, e da nessuno è conosciuto, è il soggetto. Esso è dunque che porta in sé il mondo; è l’universale, ogni presupposta condizione di ogni fenomeno di ogni soggetto. Questo soggetto ciascuno trova in se stesso; ma tuttavia solo in quanto conosce, non in quanto è egli medesimo oggetto di conoscenza. Oggetto è già invece il suo corpo: e anch’esso, secondo questo modo di vedere, chiamiamo rappresentazione. Invero il corpo è oggetto fra oggetti, e sottoposto alle leggi degli oggetti, sebbene sia oggetto immediato.
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Il mondo come rappresentazione, dunque – e noi non lo consideriamo qui se non sotto questo aspetto – ha due metà essenziali, necessarie e inseparabili. L’una è l’oggetto, di cui sono forma spazio e tempo, mediante i quali si ha la pluralità. Ma l’altra metà, il soggetto, non sta nello spazio e nel tempo: perché essa è intera e indivisa in ogni essere rappresentante; perciò anche uno solo di questi esseri, con l’oggetto, integra il mondo come rappresentazione, così appieno quanto i milioni di esseri esistenti. Ma, se anche solo quell’unico svanisse, cesserebbe di esistere pura il mondo come rappresentazione: queste metà sono perciò inseparabili, anche per il pensiero; perché ciascuna di esse consegue solo mediante e per l’altra significazione ed esistenza, ciascuna esiste con l’altra e con lei dilegua. Esse si limitano a vicenda direttamente: dove l’oggetto comincia, finisce il soggetto.
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In verità, il senso tanto cercato di questo mondo, che mi sta davanti come mia rappresentazione – oppure il passaggio da esso, in quanto pura rappresentazione del soggetto conoscente, a quello che ancora può essere oltre di ciò – non si potrebbe assolutamente mai raggiungere, se l’indagatore medesimo non fosse nient’altro che il puro soggetto conoscente (alata testa d’angelo senza corpo). Ma egli ha in quel mondo le proprie radici, vi si trova come individuo: ossia il suo conoscere, che è condizione dell’esistenza del mondo intero in quanto rappresentazione, avviene in tutto e per tutto mediante un corpo; le cui affezioni … sono per l’intelletto il punto di partenza dell’intuizione di quel mondo. Codesto corpo è per il puro soggetto conoscente, in quanto tale, una rappresentazione come tutte le altre, un oggetto fra oggetti: i suoi movimenti, le sue azioni non sono da lui, sotto questo rispetto, conosciute altrimenti che le modificazioni di tutti gli altri oggetti intuitivi; e gli sarebbero egualmente estranee e incomprensibili, se il loro senso non gli fosse per avventura svelato in qualche modo affatto diverso. In caso contrario, vedrebbe la propria condotta regolarsi con la costanza di una legge naturale sui motivi che le si offrono, proprio come le modificazioni degli altri oggetti sono regolate da cause, stimoli, motivi.
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Ma le cose non stanno così: al soggetto conoscente, che appare come individuo, è data la parola dell’enigma; e questa parola è volontà. Questa, e questa sola, gli dà la chiave per spiegare il suo proprio fenomeno, gli manifesta il senso, gli mostra l’intimo congegno del suo essere, del suo agire, dei suoi movimenti. Al soggetto della conoscenza, il quale per la sua identità col proprio corpo ci si presenta come individuo, questo corpo è dato in due modi affatto diversi: è dato come rappresentazione nell’intuizione dell’intelletto, come oggetto fra oggetti, e sottomesso alle leggi di questi; ma è dato contemporaneamente anche in tutt’altro modo, ossia come quell’alcunché direttamente conosciuto da ciascuno, che la parola volontà esprime. Ogni vero atto della sua volontà è immediatamente e ineluttabilmente anche un moto del suo corpo: egli non può volere davvero l’atto, senza accorgersi insieme che esso appare come movimento del corpo. L’atto volitivo e l’azione del corpo non sono due stati conosciuti oggettivamente, che il vincolo della causalità collega; non stanno fra loro nella relazione di causa ed effetto: bensì sono un tutto unico, soltanto dati in due modi affatto diversi, nell’uno direttamente, e nell’altro mediante l’intuizione per l’intelletto. L’azione del corpo non è altro che l’atto del volere oggettivato, ossia penetrato nell’intuizione.
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Attraverso tutte queste considerazioni, chi può avere raggiunto anche in abstracto – quindi con chiarezza e certezza – la conoscenza che ciascuno ha direttamente in concreto, ossia come sentimento: che cioè l’essenza in sé del nostro proprio fenomeno (il quale come rappresentazione ci si offre sia nelle nostre azioni, sia nel permanente loro substrato: il nostro corpo) è la nostra volontà; e che questa costituisce l’elemento immediato della nostra coscienza … chi, io dico, è arrivato con me a codesta persuasione, troverà che questa è per lui come la chiave per conoscere l’intima essenza della natura intera; applicandola anche a quei fenomeni che non gli sono dati, come i suoi propri, in conoscenza immediata oltre che mediata, ma solo in quest’ultima, quindi solo unilateralmente, come semplice rappresentazione. Non soltanto in quei fenomeni che sono affatto simili al suo proprio – negli uomini e negli animali – egli dovrà riconoscere, come più intima essenza, quella medesima volontà; ma la riflessione prolungata lo condurrà a conoscere anche la forza che ferve e vegeta nella pianta, e quella per cui si forma il cristallo, e quella che volge la bussola al polo, e quella che scocca nel contatto di due metalli eterogenei, e quella che si rivela nelle affinità elettive della materia, come repulsione e attrazione, separazione e combinazione; e da ultimo perfino la gravità, che in ogni materia così potentemente agisce e attrae la pietra alla terra, come la terra verso il sole – tutte queste forze in apparenza diverse conoscerà nell’intima essenza come un’unica forza, come quella forza a lui più profondamente e meglio nota di ogni altra cosa, che là, dove più chiaramente si produce, prende nome di volontà. Solo questo impiego della riflessione non ci fa più arrestare al fenomeno, bensì ci conduce fino alla cosa in sé. Fenomeno è rappresentazione, e non più: ogni rappresentazione, di qualsivoglia specie, ogni oggetto è fenomeno. Cosa in sé invece è solamente la volontà: ella, come tale, non è punto rappresentazione, bensì qualcosa toto genere differente da questa: ogni rappresentazione, ogni oggetto, è fenomeno, estrinsecazione visibile, obiettività di lei. Ella è l’intimo essere, il nocciolo di ogni singolo, ed egualmente del Tutto: ella si manifesta in ogni cieca forza naturale; ella anche si manifesta nella meditata condotta dell’uomo: la gran differenza, che separa la forza cieca dalla meditata condotta, tocca il grado della manifestazione, non l’essenza della volontà che si manifesta.
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La volontà come cosa in sé … sta fuori del dominio del principio di ragione in tutte le sue forme, ed è quindi assolutamente senza ragione, sebbene ogni sua manifestazione sia in tutto sottomessa al principio di ragione, sta fuori inoltre di ogni pluralità, sebbene le sue manifestazioni nel tempo e nello spazio siano innumerevoli. Ella è una, ma non come è un oggetto, la cui unità può essere conosciuta solo in contrasto con la possibile pluralità; e nemmeno come è un concetto, che è sorto dalla pluralità mediante astrazione: bensì è una in quanto sta fuori dal tempo e dallo spazio, fuori dal principium individuationis, ossia dalla possibile pluralità.
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Un ultimo passo ci rimane da fare: l’estensione del nostro sistema anche a quelle forze, che agiscono nella natura secondo leggi generali e immutabili, conformemente alle quali si producono i movimenti di tutti quei corpi che, affatto privi di organi, non sono sensibili allo stimolo e non possono conoscere motivi. La chiave per l’intendimento delle cose nella loro sostanza in sé – chiave che sola poteva darci l’immediata cognizione della nostra propria essenza – dobbiamo ora applicarla anche a quei fenomeni del mondo inorganico, che sono i più remoti da noi stessi. Ora, se noi li osserviamo con occhio indagatore, se noi vediamo il veemente, incessante impeto con cui le acque precipitano verso il profondo; la costanza con cui il magnete torna sempre a volgersi verso il polo; lo slancio con cui il ferro corre alla calamita; la vivacità con cui i poli elettrici tendono a congiungersi, vivacità che viene aumentata dagli ostacoli, proprio come accade agli esseri umani; se vediamo il cristallo formarsi quasi istantaneamente, con tanta regolarità di conformazione, la quale evidentemente è solo una risoluta e precisa tendenza verso differenti direzioni, irrigidita e fissata d’un tratto; se osserviamo la scelta con cui i corpi sottratti ai vincoli della solidità, e fatti liberi dallo stato liquido, si cercano, si sfuggono, si congiungono, si separano; se infine, sentiamo direttamente che un peso, la cui tendenza verso terra sia trattenuta dal nostro corpo, grava e preme incessantemente su di questo, seguendo la propria unica tendenza; non ci costerà un grande sforzo di fantasia il riconoscere, anche a così grande distanza, la nostra medesima essenza: quella stessa che in noi opera secondo i suoi fini alla luca della conoscenza, mentre qui, nei più deboli dei suoi fenomeni, opera in modo cieco, sordo, unilaterale e invariabile. Ella è sempre una e sempre la stessa in così diverse manifestazioni, e perciò … in queste e in quelle deve prendere il nome di volontà: il quale contrassegna ciò che è essenza di ciascuna cosa del mondo, e unica sostanza di ogni fenomeno.
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In primo luogo desidero che si richiami qui la considerazione con cui abbiamo chiuso il secondo libro, indottivi dalla domanda colà formulata, intorno alla meta e allo scopo della volontà. Invece di trovare risposta, ci risultò evidente che la volontà, in tutti i gradi del suo fenomeno, dai più bassi ai più alti, manca affatto di un fine ultimo e di uno scopo; continuamente aspira, perché aspirare è la sua unica essenza, a cui non pone termine alcun fine raggiunto; non è quindi capace di alcun appagamento finale, e solo per una costrizione può essere trattenuta, ma in sé si estende nell’infinito.
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Da tempo conoscemmo questa aspirazione, costituente l’in sé di ogni cosa, come identica e tutt’una con ciò che in noi, dove essa si manifesta con la maggior chiarezza, alla luce della più piena coscienza, si chiama volontà. La sua compressione mediante un ostacolo, che si mette fra lei e un suo scopo, chiamiamo quindi dolore; viceversa il suo conseguire lo scopo chiamiamo appagamento, benessere, felicità. Possiamo riferire tali denominazioni anche ai fenomeni del mondo privo di conoscenza, più deboli di grado, ma nell’essenza identici. Li vedremmo allora presi da perenne soffrire, senza durevole felicità. Perché ogni aspirare proviene da mancanza, da insoddisfazione del proprio stato: è quindi dolore, finché non sia appagato; ma nessun appagamento è durevole, anzi non è che il principio di una nuova aspirazione. L’aspirazione vediamo ovunque in più forme compressa, quotidianamente combattendo; quindi sempre come dolore. non ha termine l’aspirare, non ha dunque termine e misura il soffrire. Ma quello che così solo con più acuta attenzione e a fatica scopriamo nella natura priva di conoscenza, ci appare limpido nella conoscente, nella vita animale; il cui perenne soffrire è facile a dimostrarsi. E senza indugiare in codesto grado intermedio, ci volgeremo là, dove, rischiarato dalla più luminosa conoscenza, tutto si disvela nel modo più chiaro: nella vita dell’uomo. Perché come il fenomeno della volontà diventa più compiuto, così diventa anche più e più palese il dolore. Nella pianta non è ancora sensibilità, e quindi punto dolore: un grado certamente tenue di sofferenza è insito negli animali infimi, infusori e radiolari; perfino negli insetti è la capacità di sentire e soffrire ancora limitata: solo col perfetto sistema nervoso dei vertebrati la si presenta in alto grado, e sempre più alto, quanto più l’intelligenza si sviluppa. Nella stessa misura dunque, onde la conoscenza perviene alla chiarezza, e la coscienza si eleva, cresce anche il tormento, che raggiunge perciò il suo massimo grado nell’uomo; e anche qui tanto più, quanto più l’uomo distintamente conosce ed è più intelligente. Quegli, in cui vive il genio, soffre più di tutti.
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Già vedemmo la natura priva di conoscenza avere per suo intimo essere un continuo aspirare, senza meta e senza posa; ben più evidente ci appare questa aspirazione considerando l’animale e l’uomo. Volere e aspirare è tutta la loro essenza, affatto simile a sete inestinguibile. Ma la base di ogni volere è bisogno, mancanza, ossia dolore, a cui l’uomo è vincolato dall’origine, per natura. Venendogli invece a mancare oggetti del desiderio, quando questo è tolto via da un troppo facile appagamento, lo opprimono noia e vuoto tremendo; cioè la sua natura e il suo essere medesimo gli diventano intollerabile peso. La sua vita oscilla quindi come un pendolo, di qua e di là, tra il dolore e la noia, che sono in realtà i suoi veri elementi costitutivi.
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Ciò che è universalmente ammesso come positivo, che noi chiamiamo l’ente, e la cui negazione è espressa dal concetto del nulla nel suo significato più universale, è appunto il mondo della rappresentazione, che io ho indicato come oggettità, specchio della volontà. E questa volontà e questo mondo sono poi anche noi stessi, e al mondo appartiene la rappresentazione in genere, come una delle sue facce: forma di tale rappresentazione sono lo spazio e il tempo, quindi ogni cosa, che sotto questo riguardo esista, deve essere posta in qualche luogo e in qualche tempo. Negazione, soppressione, rivolgimento della volontà è anche soppressione e dileguamento del mondo, che è specchio di quella. Se non vediamo più la volontà in questo specchio, invano ci domanderemo dove si sia rivolta; e lamentiamo allora che ella non abbia più né dove né quando, e sia svanita nel nulla.
Un punto di vista invertito, qualora fosse possibile per noi, scambierebbe i segni, mostrando come il nulla ciò che per noi è l’ente. Ma, finché noi medesimi siamo la volontà di vivere, il nulla può essere conosciuto da noi solo negativamente, perché l’antico principio di Empedocle, potere il simile essere conosciuto soltanto dal simile, ci toglie qui ogni possibilità di conoscenza.
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Quando si volesse tuttavia insistere nel pretendere in qualche modo una cognizione positiva di ciò, che la filosofia può esprimere solo negativamente, come negazione della volontà, non potremmo fare altro che richiamarci allo stato di cui fecero esperienza tutti coloro, i quali pervennero alla completa negazione della volontà; stato al quale si sono dati i nomi di estasi, rapimento, illuminazione, unione con Dio, e così via. Ma tale stato non può chiamarsi cognizione vera e propria, perché non ha più la forma del soggetto e dell’oggetto e inoltre è accessibile solo all’esperienza diretta, né può essere comunicato altrui.
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Davanti a noi non resta invero che il nulla. Ma quello che si ribella contro codesto dissolvimento nel nulla, la nostra natura, è anch’essa nient’altro che la volontà di vivere. Volontà di vivere siamo noi stessi, volontà di vivere è il nostro mondo. L’avere noi tanto orrore del nulla, non è se non un’altra manifestazione del come avidamente vogliamo la vita, e niente siamo se non questa volontà, e niente conosciamo se non lei. Ma rivolgiamo lo sguardo dalla nostra personale miseria e dal chiuso orizzonte verso coloro, che superarono il mondo; coloro, in cui la volontà, giunta alla piena conoscenza di sé, se medesima ritrovò in tutte le cose e quindi liberamente si rinnegò; coloro che attendono di vedere svanire ancora solamente l’ultima traccia della volontà col corpo, cui ella dà vita. Allora, in luogo dell’incessante, agitato impulso; in luogo del perenne passare dal desiderio al timore e dalla gioia al dolore; in luogo della speranza mai appagata e mai spenta, onde è formato il sogno di vita di ogni uomo ancora volente: ci appare quella pace che sta più in alto di tutta la ragione, quella assoluta quiete dell’animo pari alla calma del mare, quel profondo riposo, incrollabile fiducia e letizia, il cui semplice riflesso nel volto, come l’hanno rappresentato Raffaello e Correggio, è un completo e certo Vangelo. La conoscenza sola è rimasta, la volontà è svanita. E noi guardiamo con profonda e dolorosa nostalgia a quello stato, vicino al quale appare in piena luce, per contrasto, la miseria e la perdizione del nostro. Eppure quella vista è la sola che ci possa durevolmente consolare, quando noi da un lato abbiamo riconosciuto essere insanabile dolore e infinito affanno inerenti al fenomeno della volontà, al mondo; e dall’altro vediamo con la soppressione della volontà dissolversi il mondo, e soltanto il vacuo nulla rimanere innanzi a noi. In tal modo dunque, considerando la vita e la condotta dei santi, che raramente ci è concesso invero di incontrare nella nostra personale esperienza, ma che dalle loro biografie e, col suggello dell’interna verità, dall’arte ci sono posti sotto gli occhi, dobbiamo scacciare la sinistra impressione di quel nulla, che ondeggia come ultimo termine in fondo a ogni virtù e santità e di cui noi abbiamo paura, come della tenebra i bambini. Scacciarla, quell’impressione, invece di ammantare il nulla, come fanno gli Indiani, in miti e in parole prive di senso, come sarebbero l’assorbimento in Brahma o il Nirvana dei Buddisti. Noi vogliamo piuttosto liberamente dichiarare: quello che rimane dopo la soppressione completa della volontà è invero, per tutti coloro che della volontà sono ancora pieni, il nulla. Ma viceversa per gli altri, in cui la volontà si è rivolta da se stessa e rinnegata, questo nostro universo tanto reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee, è – il nulla.
Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione
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