L’essere e la verità

La domanda fondamentale, da cui abbiamo preso le mosse, è la seguente: che cos’è l’essere? La domanda relativa a questa domanda è: come posso e come devo pensare l’essere?

Tutto ciò che diviene oggetto per me esce dal mondo oscuro in cui vivo e, progressivamente, me lo chiarifica col suo presentarsi. L’oggetto è un essere determinato, esso sta in relazione ad un altro dal quale è distinto e, in relazione a me, a cui, a guisa di pensato, sta di fronte.

L’orizzonte dell’oggettività non è il tutto, perché per quanto sia grande e comprensivo, dimora sempre in un essere più avvolgente che lo circoscrive; l’orizzonte dell’oggettività, allora, non è la totalità.

L’essere, in quanto essere, non si manifesta come oggetto; pensare l’essere, ad esempio, come materia, come energia, come spirito, come vita etc. (tutte le possibili categorie sono state tentate), significa assolutizzare, quasi fosse l’essere stesso, un modo determinato dell’essere che mi è venuto incontro nella totalità dell’essere.

Ciò che il sapere apprende è l’essere che io so, non l’essere in sé; e neppure l’essere che io sono è l’essere; in entrambi i casi si ha a che fare con un essere determinato, e il nostro sapere non può ritenersi pago, e quindi arrestarsi, di fronte ad un essere determinato. Nei confronti della nostra volontà di sapere che pretende di afferrare l’essere, l’essere si comporta come ciò che indietreggia, e che lascia, nella forma degli oggetti che ci stanno dinnanzi, dei semplici resti e delle tracce. Nessun essere conosciuto è l’essere.

Tutto ciò che sta di fronte a me, a guisa di oggetto, è sempre intimamente connesso e compreso in una certa totalità del nostro mondo, nel quale noi stessi viviamo. Noi vediamo questa totalità, in essa siamo al sicuro, perché, se così si possiamo dire, essa ci avvolge nell’orizzonte del nostro sapere. Ogni orizzonte ci racchiude, e ci proibisce uno sguardo ulteriore, allora noi facciamo pressione per andare oltre ogni orizzonte; tuttavia, dovunque noi ci sospingiamo, sempre ci accompagna l’orizzonte che continuamente racchiude le cose di volta in volta raggiunte.Esso è sempre presente di nuovo, e poiché è solo orizzonte e non conclusione, non ci consente un arresto definitivo. Noi non guadagniamo mai un punto di vista per il quale l’orizzonte limitante abbia fine, e dal quale sia possibile abbracciare con lo sguardo un tutto non più racchiuso da un orizzonte, tale quindi da non indirizzare più oltre; e neppure raggiungiamo una serie di punti di vista, nella connessione dei quali, proprio come avviene in una circumnavigazione, sia possibile raggiungere, mediante un movimento che trascorra dall’uno all’altro orizzonte, l’unico essere in sé concluso: un sistema dell’essere. L’essere rimane per noi aperto, esso ci trascina da tutte le parti verso l’infinito, esso, di volta in volta, ci fa venire incontro qualcosa di nuovo come essere determinato.

L’essere determinato, l’essere conosciuto, è sempre compreso da un essere più ampio; ogni volta noi sperimentiamo, insieme alla positiva comprensione di un particolare (particolare è anche ogni teorizzato sistema della totalità dell’essere), anche ciò che l’essere non è. Quando siamo divenuti consapevoli di questo, rinnoviamo la domanda intorno all’essere, che, col progressivo manifestarsi di tutti i fenomeni che ci vengono incontro, come tale indietreggia. Questo essere che non è oggetto, che sempre restringe, né una totalità che si configuri come orizzonte (che sempre limita), noi lo chiamiamo “Umgreifende”. L’Umgreifende si annuncia come ciò che comprendendo di volta in volta ogni orizzonte guadagnato, trascende di continuo tutti gli orizzonti, senza configurarsi mai esso stesso come orizzonte limitante.

L’umgreifende non è l’orizzonte del nostro progressivo sapere, e neppure l’orizzonte entro cui ci viene incontro ogni determinato modo dell’essere. Perché l’Umgreifende non appare mai come orizzonte.

L’Umgreifende è l’essere nella sua vera e propria essenza perché l’essere è la totalità avvolgente da cui tutti i possibili orizzonti emergono.

Ancora: l’Umgreifende è ciò che annuncia sempre e solo se stesso; presente nell’apparire oggettivo e negli orizzonti, non si configura mai esso stesso come oggetto o come orizzonte; anzi, in se stesso l’Umgreifende, propriamente, non ci appare, ma nell’Umgreifende ci appaiono tutte le cose.

L’Umgreifende, dunque, si manifesta solo indirettamente quando ci dirigiamo verso di lui, superando e oltrepassando ogni orizzonte determinato.

All’interno di ciascun orizzonte, noi comprendiamo le cose come “questi” oggetti di volta in volta determinati; questi oggetti, però, non testimoniano solo il loro apparire immediato, ma anche ciò che, attraverso l’Umgreifende, e dall’Umgreifende, traspare e si manifesta.

Noi cerchiamo l’Umgreifende quando filosofiamo.

Poiché l’Umgreifende è ciò che avvolge la totalità degli enti, noi non lo possiamo concepire come “qualcosa” che è nel mondo, e che, venendoci incontro, ci appare (l’Umgreifende, infatti, è ciò in cui tutte le altre cose ci appaiono, mentre in se stesso, a guisa di oggetto, non può in nessun modo essere conosciuto); pertanto, solo attraverso il pensiero, noi ci accorgiamo di lui come di un limite.

Noi, oltre tutti gli enti che si trovano negli orizzonti, e oltre tutti gli orizzonti, vorremmo gettare uno sguardo oltre il nostro particolare Esserci, allo scopo di sperimentare che cosa noi, propriamente, siamo. Noi raggiungiamo questo scopo quando abbandoniamo il nostro mondo con tutti i suoi oggetti pensati, e sacrifichiamo tutti gli orizzonti, anche se, non appena ci mettiamo su questa via, abbiamo l’impressione di cadere in un vuoto privo di ogni contenuto.

L’oltrepassamento degli enti verso l’Umgreifende è un pensiero semplice ma infinitamente ricco di conseguenze. … Ridestati da questo pensiero, noi impariamo ad ascoltare ciò che è autentico, e a percepire ciò che sta alle origini.

Occorre distinguere la trascendenza costituita da ogni tipo di Umgreifende rispetto agli enti da lui circoscritti, dalla Trascendenza vera e propria.

Noi operiamo il trascendimento verso l’Umgreifende, quando oltrepassiamo l’oggettività determinata per accorgarci di ciò che la circoscrive; sotto questo profilo possiamo chiamare ogni modo dell’Umgreifende una Trascendenza, tale è infatti ogni modo dell’Umgreifende, rispetto a tutto ciò che di oggettivo è compreso nell’Umgreifende stesso.

Chiamiamo però Trascendenza in senso proprio, solo l’Umgreifende simpliciter, cioè l’Umgreifende di tutti gli Umgreifende, il cui significato è originario e unico. Esso è, nei confronti di tutti i modi dell’Umgreifende che tendono alla Trascendenza, la Trascendenza di tutte le Trascendenze.

La trascendenza, o Umgreifende di tutti gli Umgreifende, è ciò che, considerato semplicemente nella sua dimensione circoscrivente, “è”, in una accezione assolutamente incontrovertibile: Questa affermazione intorno alla Trascendenza va tenuta ferma anche se la Trascendenza, in quanto tale, non può essere vista, perché nel venir-pensata sparisce, e, sottraendosi ad ogni tentativo di immagine e figurazione, si nasconde.

La Trascendenza non si manifesta come si manifesta l’essere-del-mondo in adeguati fenomeni; si sottrae al pensiero che volesse comprenderla in termini incontraddittori a guisa di un oggetto determinato; nelle immagini in cui è stata figurata, non è presente la sua essenza, ma solo il suo linguaggio nei termini in cui storicamente è stato evocato dall’umano.

Se dunque ogni figurazione, ogni pensiero, ogni immagine, che tenti di cogliere la Trascendenza è manchevole, allora si potrà parlare della Trascendenza solo in termini negativi, nel senso che è più facile dire che cosa la Trascendenza non è, più di quanto non lo sia dire in che cosa essa consista.

Ma se la Trascendenza non può essere colta in nessun pensiero, in nessuna forma, in nessuna immagine, allora la trascendenza è presente come l’essere vero e proprio, grazie al quale ogni pensiero, ogni forma, ogni immagine, ogni empirica realtà, possono costituirsi.

Innumerevoli sono i nomi assegnati alla Trascendenza; limitando la nostra analisi all’Occidente, troviamo le denominazioni: Essere, Realtà Originaria, Divinità, Dio, termini questi in sé indeterminati, ma solenni e infinitamente ricchi di significato nella tradizione storica.

Se noi pensiamo la Trascendenza come Umgreifende, o realtà omnicircoscrivente, la chiamiamo Essere. L’Essere è il Positivo, l’Immutabile, il Vero, ma in questa tranquillità, in questa sua incondizionatezza, l’Essere può essere colto solo dal pensiero che astrattamente trascende.

Se noi viviamo con la Trascendenza, essa allora si presenta come la Realtà autentica che si rende accessibile come ciò che è essenziale al nostro essere, come ciò che ci attrae e ci offre un appoggio.

Se poi in questa Realtà autentica ci parla un Essere che esige da noi, che ci domina e ci circonda, allora chiamiamo la Trascendenza: Divinità.

Se infine noi ci sentiamo colpiti personalmente da lei nella nostra esistenza singola, e, come persone, guadagniamo un rapporto personale con la Trascendenza, intesa a sua volta come persona, chiamiamo allora la Trascendenza: Dio.

Esponiamo le vie che ci consentono di raggiungere l’autentica Trascendenza, con l’avvertenza, però, che quest’ultima, per quanto si chiarifichi, rimane pur sempre nascosta, e che noi, di fatto, siamo sempre al punto di partenza.

Le vie sono:

a) Il trascendere formale che si accerta dell’essere della Trascendenza tramite il procedere concettuale, metodico e appropriato del pensiero che alla fine naufraga;

b) Il rapporto esistenziale che nella ostinazione e nella dedizione, nel naufragio e nello slancio del nostro sapere, nell’ubbidienza alla legge del giorno e nella passione per la notte, rende presente la realtà della Trascendenza nel suo rapporto con l’Esistenza;

c) La lettura delle cifre che si lasciano riconoscere sia nel mondo oggettivo che in quello dell’esperienza intima, nell’uno e nell’altro caso i contenuti diventano trasparenti, e, attraverso la loro trasparenza, lasciano intendere il linguaggio della Trascendenza, nella misura e nella forma con cui noi ci portiamo ad un livello esistenziale.

La volontà di verità, attraverso la coscienza tragica, è posta di fronte ad una alternativa: o vivere ed errare, o afferrare la verità, e in ciò morire.

Ma di fronte a questo “aut aut” si trova solo l’interpretazione razionale che fissa i termini escludenti dell’alternativa, non l’apertura della coscienza tragica. Di fronte alla terribile grandiosità di questa scelta è bene non dimenticare che la verità, nella compiutezza della sua totalità, sia che l’uomo in essa debba morire o trovare la sua pace, non c’è per noi nel tempo. La verità, nel tempo, è sempre in cammino, è sempre ancora in movimento e, nelle sue meravigliose cristallizzazioni, non è mai definitiva. Questa situazione fondamentale non può essere trascurata, essa è la condizione dell’autentico filosofare; il sapere tragico, nella sua apertura, non ha ancora abbandonato questa via. Piuttosto l’assolutizzazione della verità parziale è, in sé, un tragico capovolgimento che è compreso nella coscienza tragica. Qualsiasi verità, ritenuta compiuta, naufragando, si rivela non-vera.

Se dunque, nel tempo, la verità non esiste nella sua compiutezza, allora il divenire della ricerca che conduce verso di lei, sarà la forma nella quale la verità realizza, nel tempo, il suo compimento. In riferimento ad un possibile compimento della verità, la filosofia si lascia definire in termini esclusivamente difensivi. La filosofia non è solo la dimensione concettuale della coscienza tragica che considera l’essere tramite il mito e la storia, che si esprime attraverso il poeta nell’epica e nella tragedia, che si chiarisce attraverso il pensiero filosofico, il quale comprende la poesia come suo organo, appropriandosi, tramite la riflessione, del suo contenuto poetico. La filosofia realizza la sua esistenza autentica solo nel superamento del tragico.

Ma nel superamento del tragico, la filosofia non può pretendere di offrire quella soluzione che spetta alla religione. La filosofia, come tale, deve rinunciare alla soluzione. La filosofia è in grado di offrire solo qualcosa che ha una certa analogia con la soluzione, come la liberazione che si realizza nella direzione del pieno dispiegamento della ragione, dell’amore nel mondo, e nello slancio della coscienza dell’essere che si attua nell’ascolto del linguaggio delle cifre.

La via filosofica della soluzione è difficile, perché non offre nessuna concretizzazione né garanzia, perché nessuna istanza del mondo può dire su di lei un’ultima parola. Assunto nel regno filosofico, l’uomo filosofante non può seguire nessun modello, non può dipendere da nessuna autorità, non può concepire mai la verità come una dottrina, né essere debitore della sua salvezza a qualche rivelazione storicamente data. Egli deve condurre l’indagine da solo, deve prendere su di sé la propria responsabilità. Siccome nessuno l’ha assunto nel regno dello spirito filosofico, egli deve giustificare da sé la sua presenza; siccome nessuno in esso l’ha gettato e stabilito, egli non ha altro giudice se non la propria coscienza, che lo sottopone a esame ogni qualvolta soddisfa o manca all’impegno. Eppure su questa via del filosofare c’è un entusiasmo silenzioso e attraente.

Chi ha compreso che cosa accada nella filosofia, che cosa gli uomini, pensando, vogliono raggiungere, costui è aperto per il segreto che si manifesta. Ciò che i filosofi consegnarono alla tradizione, deve essere scoperto da ciascuno personalmente e da solo, attraverso la propria attività interiore e la propria esperienza. La scoperta del segreto filosofico, però, ha luogo sempre e solo attraverso il proprio filosofare. Nessuna scoperta è comunicabile all’altro in modo identico, ma ognuno deve trovarsi da sé nel regno dello spirito.

La filosofia può levare la cataratta alla nostra cecità, allora noi coi nostri occhi dobbiamo vedere. La filosofia può rendere attenti, può dare indicazioni, può condurci ai confini del sapere, può renderci consapevoli delle situazioni-limite, proprie della realtà empirica, rischiarando può avvicinarci, può scrivere le cifre, e attraverso le cifre della Trascendenza può essere capita meglio; con ciò, la filosofia non può dare la verità definitiva.

La filosofia conduce lungo quella via che è essa stessa. La filosofia non è in punto di arrivo, il punto di arrivo è solo la Trascendenza, l’Uno, Dio. Ma che il punto di arrivo ci sia, e che cosa esso sia, si manifesta solo nel filosofare, in modi sempre unici e irrappresentabili. Questo punto di arrivo si esprime attraverso la ragione, come felicità propria della chiarezza dell’essere aperto nella sua dimensione tutt’avvolgente; attraverso l’amore come felicità che si realizza nel compimento; attraverso la cifra come linguaggio che manifesta l’essere vero e proprio.

Se noi volessimo raggiungere direttamente, e senza mediazione alcuna, la realtà di Dio, allora perderemmo l’autentica via che ci conduce a lui; il fascino esercitato dal pensiero dell’Uno è tale da svalutare fatalmente il mondo, la ricchezza dei suoi fenomeni, la nostra stessa vita.

Noi possiamo giungere all’uno solo attraverso il mondo, attraverso i suoi fenomeni, attraverso la storicità della nostra vita. Se noi lo afferrassimo direttamente, esso diverrebbe vuoto. L’astratto monoteismo è un pensiero negativo da cui nasce un comportamento fideistico che si traduce solo in una azione negativa. Tutto è nulla. Questa intuizione, vera all’origine, lascerebbe nel nulla Dio stesso, se invece di sospingere inquietamente innanzi lungo la via che conduce al compimento, ritenesse se stesso già per il compimento.

Il nostro possibile compimento risiede nella mediazione. Lo slancio che conduce al Dio-uno attraversa il mondo dei fenomeni. La trasformazione del mondo in una mediazione tra noi e Dio è la sua trasformazione nell’esser cifra. Che la realtà autentica sia il Dio-uno noi lo sperimentiamo solo indirettamente nella realtà empirica del mondo, attraverso la lingua del mondo; noi lo sperimentiamo nello slancio che ci anima quando diventiamo consapevoli delle cifre, ciascuna delle quali agisce in noi da stimolo e da impulso per uno slancio successivo.

Se si desse un’esperienza diretta di Dio, questa sarebbe incomunicabile, e nella successione del tempo, potrebbe essere confermata, ricordata, e accertata ancora una volta solo attraverso i fenomeni del mondo. Che conduce al Dio-uno c’è solo una via, quella lungo la quale ci diviene trasparente tutto ciò che è, tutto ciò che ci appare, tutto ciò che noi stessi siamo e facciamo. Questo diventar trasparente è il diventare cifra, e questo diventare cifra rinvia, secondo modalità che non si lasciano scorgere, nella profondità di significati sempre più pregnanti, il cui significato compiuto sfugge al sapere. Noi dobbiamo continuamente tenerci aperti per la scrittura delle cifre, la cui comprensione ultima sfugge alle nostre intuizioni e ai nostri sistemi. Tutto ciò che è deve diventare cifra; ed è serietà quella che ci proviene dalle cifre e agisce in noi, anche se agli occhi della realtà quotidiana può sembrare un sogno o un gioco.

Non c’è nessuna indicazione relativa al modo di eseguire lo slancio verso la Trascendenza. Qui, come del resto in ogni azione propriamente filosofica, la decisione è sempre unica e singolare e non può essere anticipata in termini universali. Noi abbiamo indicato il fondamento del divenire filosofico e i modi in cui si articola, ma sarebbe un errore ritenere che con ciò sia già dato il compimento o posto il programma. Noi ci siamo sollevati alla coscienza dell’essere, ma con ciò il contenuto dell’essere non è già mediato. Sarebbe in errore chi attendesse da queste indicazioni un sapere compiuto, capace di guidare secondo un indirizzo sicuro. La chiarificazione filosofica non è l’indicazione di una condotta. L’aver evidenziato le possibilità racchiuse nel fondamento originario, non significa aver mediato il contenuto sostanziale.

Il fondamento originario è in Dio. Da lui deve essere donato ad ogni uomo ciò che esso diviene, attraverso l’essere che gli si manifesta.

Jaspers, Sulla verità

 

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