IL NIRVANA NEL “PENSIERO” DEL BUDDHA (Appunti da Richard Gombrich)

Il testo che segue si compone di parti dell’opera di Gombrich sul pensiero del Buddha, a proposito del Nirvana. Ho riportato ciò che mi sembrava essenziale ai fini della mia ricerca personale sullo stato coscienziale “Kadosch”, quello che riguarda, cioè, l’ultima parte della Via iniziatica scozzese. Il termine “pensiero” viene utilizzato sempre impropriamente, a questo livello di coscienza, poiché la Conoscenza non si struttura più secondo dialettica e sfugge, quindi, ad ogni definizione e possibilità di comunicazione. Questo però è anche il punto, se così si può dire, in cui le Vie iniziatiche trovano la loro convergenza nell’unità coscienziale. Per questo può essere utile trarre spunti da fonti diverse e ugualmente “nobili”, nella speranza che questi spunti possano arricchire il percorso di ogni sincero ricercatore. Bisogna tenere anche conto, nella lettura del testo, del fatto che l’autore è uno studioso, uno storico, che ragiona secondo la sua scienza e la sua coscienza. Così come accade ad ognuno di noi.

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Riscontro che quando tengo un corso sul buddhismo ai principianti, durante il primo incontro la domanda più frequente è: “Che cos’è il Nirvana?”.

Facile spiegare la metafora, e spiegare che bisogna liberarsi completamente dalla passione, dall’odio e dalla confusione; come risposta provvisoria può andar bene.

Ma la risposta completa, ovvero che il nirvana è definibile come l’esatto opposto di tutto ciò che appartiene alla nostra esperienza ordinaria, richiede ovviamente pazienza: la classe deve prima apprendere in che modo il Buddha concepisse l’esperienza ordinaria.

Dobbiamo ricordare che per il Buddha “esistere” significa esistere senza mutamenti; essere e divenire sono opposti. Il nostro mondo è ciò che sperimentiamo ed è un mondo di cambiamenti, di divenire, di processi. E’ costruito, composto (samkhata) dal nostro apparato cognitivo. C’è però un’unica cosa che non è composita ma che esiste di per sé: il nirvana. Esso non “appare” soltanto, ma è. Il nirvana è l’unico dhamma a non nascere da cause.

Non ha senso dire che il nirvana sia una verità, perché la verità è una proprietà delle proposizioni, mentre la realtà è una proprietà delle cose (distinzione tra epistemologia e ontologia). Il nirvana, naturalmente, non è una proposizione.

IMPIEGHI DEL TERMINE NIRVANA

  1. Secondo il Buddha l’esperienza della salvezza era un’esperienza al di là delle parole. Da questo punto di vista il Buddha si inserisce in una tradizione apparentemente universale connessa all’esperienza mistica (attenzione all’improprietà di linguaggio; N.D. FSV), ma più specificamente segue le orme delle Upanisad. Occorre però aggiungere che per il Buddha ciò non è niente di così speciale, dato che il linguaggio non è mai in grado di catturare appieno l’esperienza. Tuttavia l’esperienza dell’Illuminazione è sentita come totalmente dissimile da qualunque altra esperienza. Nondimeno, vi si accenna per mezzo di metafore. Per esempio, l’esperienza è paragonata al risveglio, o alla sensazione che i fuochi della passione, dell’odio o della confusione, da cui si era prima riarsi, si siano estinti.

2) Dopo avere sperimentato l’Illuminazione, è possibile dire come ci si sente. Nel clima caldo dell’India sembra frequente il riferimento al fatto di sentirsi freschi e a proprio agio. …. Una casuale somiglianza fonetica ha creato un’associazione fra una particolare parola per dire “beato” (nibbuta) e il nirvana. A quanto sembra, il Buddha considerava l’esperienza della Illuminazione irreversibile e indimenticabile.

3) Mentre si ha l’esperienza iniziale dell’Illuminazione non si è assolutamente in grado di descriverla; si può tentare di farlo soltanto dopo. D’altro canto, è probabile che ancor prima di avere l’esperienza la persona sia a conoscenza delle descrizioni fornite da altri e sappia a grandi linee cosa aspettarsi. Quindi, nonostante la separazione fra gli aspetti soggettivi e oggettivi dell’esperienza iniziale possa apparire futile dal punto di vista di chi ha l’esperienza, e sebbene non vi sia certamente alcunché di oggettivo, nel senso di qualcosa di suscettibile di pubblico esame, una tradizione può avere – e in questo caso ha senza dubbio – molto da dire sul contenuto. Come ha osservato William James, si ha la sensazione che ciò di cui si ha esperienza abbia un contenuto oggettivo, anche se pure questo è al di là delle parole. All’Illuminazione il Buddha spesso fa riferimento come a una “visione delle cose così come sono”. Oltre a ciò, il linguaggio può di nuovo essere dovizioso, poiché può dire molto su tutte le altre esperienze ordinarie, come infatti fece il Buddha, e poi affermare che ciò che l’illuminato sperimenta – di cui prende coscienza – è l’opposto.

L’ultima distinzione cui devo accennare è delineata all’interno del buddhismo stesso. Il nirvana discusso finora è l’Illuminazione, ma il termine si riferisce anche alla morte di un illuminato. Poiché il fatto che un illuminato non rinasce più è un assunto centrale del buddhismo, e ovviamente non possono esistere resoconti di illuminati che descrivano la loro morte, qui la tradizione apofatica non ha rivali.

Né esistente né inesistente

Una tradizione buddhista nata in Cina sostiene che il Buddha insegnò una via di mezzo tra l’essere e il non essere. L’origine di questa dottrina non è difficile da spiegare. Nel Kaccayana-gotto Sutta nel Samyutta Nikaya il Buddha dice che egli non predica né sabbam atthi (tutto esiste) né sabbam natthi (nulla esiste). Ciò che predica è la Via di mezzo fra questi due estremi, ovvero l’originazione dipendente; è questa la “retta visione” (samma ditthi). Si presuppone che l’esistenza sia definita come esistenza immutabile, concepita come l’opposto del cambiamento o di un processo. Il Buddha ripete semplicemente che nel nostro mondo, ovvero nella nostra esperienza, tutto è un processo, e per giunta un processo causalmente condizionato. Ignorando sia il contesto immediato di tale affermazione sia quello più ampio dell’insegnamento del Buddha, si è creduto che tale affermazione perfettamente razionale autorizzasse a una totale irrazionalità e la convinzione che il Buddhismo si faccia beffe delle normali leggi della logica. Non so se ciò sia valido dal punto di vista religioso, ma di certo non lo è dal punto di vista storico.

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