Dio è l’autore di ogni cosa, l’Essere Supremo e Eterno, per Lui nulla di ciò che è nell’Universo è segreto. Non fate di Lui idoli o immagini visibili. Adoratelo piuttosto nella profonda solitudine di isolate foreste. Perché Egli è invisibile, ed è l’anima dell’Universo e non vive in alcun Tempio!
Con un solo sguardo Egli vede passato, presente e futuro: gli antichi costruttori delle Piramidi, insieme con noi e con i nostri più remoti discendenti, sfilano davanti ai Suoi occhi. Egli legge i nostri pensieri prima che essi siano da noi stessi concepiti. Regola i movimenti dell’Universo, e tutti gli eventi e i cambiamenti sono prodotti dalla Sua volontà. Infatti Egli è mente infinita e suprema intelligenza.
In principio l’uomo possedeva la Parola, e quella Parola gli veniva da Dio. Oltre al soffio vitale che in essa e per mezzo di essa gli fu comunicato, l’uomo ebbe anche la luce della vera vita. Fate che nessun uomo possa pronunciare quella “Parola”, perché per suo mezzo il Padre creò la Luce e le Tenebre, il mondo e le creature!
“Il Caldeo nelle sue pianure mi adorava, e mi adorava il Fenicio amante del mare. Mi costruirono Templi e Torri, e compirono sacrifici per me sopra mille altari. La Luce era per loro una divinità, ed essi pensavano che io fossi un dio. Ma io non sono nulla: e la luce è la creatura dell’invisibile Dio che insegnò la vera religione agli antichi patriarchi: l’Assoluto, l’Ineffabile!”
Mentre ancora il primo albero metteva le sue foglie, l’uomo perse la perfetta conoscenza dell’unico vero Dio, e cominciò a navigare senza guida nell’oceano. Allora la sua anima cominciò a torturarsi, per sapere se la materia dell’Universo fosse una pura combinazione di atomi, o il prodotto di una infinita increata saggezza, se la divinità fosse immateriale, o coincidesse con l’Universo, o se fosse invece un’esistenza del tutto particolare, cioè un’essenza onnipotente, eterna, suprema, che governa la materia a sua volontà, avendola sottomessa per l’eternità a immutabili leggi. Con la loro finita e limitata visione, gli uomini cercarono di conoscere l’origine del male per spiegare l’esistenza della pena e del dolore; e così precipitarono sempre più nelle tenebre, e si perdettero. Per loro non c’era più alcun Dio, ma solo un grande, muto, inanimato Universo, pieno di muti emblemi e simboli.
Veniamo dunque ora a spiegare i nomi e le caratteristiche delle varie immaginarie divinità, con cui è stato rappresentato presso le antiche popolazioni il grande astro dell’Universo.
Athom o Athom-Ra era il primo e più antico Dio Supremo dell’Alto Egitto, adorato a Tebe; come l’Om o Aum dell’Indo, il cui nome era impronunciabile e che, come il Brehm di popoli più recenti, era “l’Essere che è stato, che è, e sarà; il grande Dio, il grande Onnipotente, Onnisciente e Onnipresente Uno, il più grande dell’Universo” il cui simbolo era una perfetta sfera. Ciò mostrava che Egli era principio e fine eterno e infinito; superiore a tutti gli “dei” della natura, cioè a qualunque personificazione di poteri, elementi ed astri. Esso era rappresentato convenzionalmente dalla luce, il principio della vita.
Amun, Dio della Natura, o Spirito della Natura, chiamato anche Amun-Ra, era adorato in Egitto e nella Libia, era lo Juppiter dei libici, e rappresentava la forza intelligente e legiferante che si sviluppa nella Natura, quando le “idee” sono rivelate ai sensi, secondo le leggi naturali, a seguito della loro unione con la materia. Questo Dio coincideva con Kneph, dalla cui bocca uscì l’uovo, dal quale, secondo gli Orfici, sarebbe nato l’Universo.
Dioniso era il Dio della Natura presso i Greci, come Amun presso gli Egizi. Nelle leggende popolari Dioniso, come Ercole, sarebbe stato un eroe tebano, nato cioè da madre mortale. Ambedue figli di Zeus, sarebbero stati entrambi perseguitati da Hera. Ma mentre in Ercole il dio è subordinato all’eroe, Dioniso, anche nella tradizione poetica, mantiene le sue prerogative divine, e si identifica con Bacco, il Genio che presiede ai Misteri. Personificazione del Sole nel Toro, come mostrano i suoi zoccoli bifidi, liberò la terra dal duro dominio dell’inverno; guidò il grande coro delle stelle, e l’annuale rivoluzione celeste; annunciava le stagioni, e come loro subiva periodici decadimenti. Egli era il Sole invocato dagli Eleatici, Pyrigenes, che si rivelava al mondo con luce e tuono, il potente Cacciatore dello Zodiaco, il dorato Zagreo.
Zagreo, figlio di Persefone, era infatti una prefigurazione di Dioniso. Come lui, era nato da Zeus nella costellazione del Serpente, e suo padre fu incaricato di produrre il Tuono e circondato dalla danza protettrice dei Curiti.
Grazie ai malefici di Hera, gelosa di Giove, i Titani elusero la sorveglianza dei loro guardiani e fecero a pezzi il corpo di Dioniso, ma Pallade restituì il cuore ancora palpitante al padre, il quale incaricò Apollo di seppellirne i resti dilaniati sul Parnaso.
Dioniso, come Apollo, proteggeva le Muse, e la tomba dell’uno invitava al culto dell’altro; erano la stessa cosa, pur differendo, anzi contrastandosi, come due ruoli complementari e separati di uno stesso dramma. Può dirsi che queste due mitiche ed eroiche personificazioni, il Dio della Natura e dell’Ade, sembrano, in qualche remoto periodo, esser scaturite da una fonte comune. La loro separazione fu formale più che sostanziale. Infatti, da quando Ercole ottenne l’iniziazione di Triptolemo, e Pitagora ricevette gli ordini orfici, le due concezioni tesero a riunirsi. E’ stato detto che Dioniso e Poseidone abbiano preceduto Apollo nell’ufficio di oracoli, e Dioniso fu sempre ritenuto nella teologia greca quale guaritore e salvatore, autore della vita e dell’immortalità. I Pitagorici “figli di Apollo” si dedicarono, dopo la loro diaspora, al culto orfico di Dioniso.
Dioniso è il Sole, liberatore degli elementi; e la sua meditazione spirituale fu suggerita da quella stessa fantasia creativa che fece dello Zodiaco la scala su cui gli spiriti scendevano e tornavano al cielo.
La sua seconda nascita, come progenie del sommo Dio, simboleggia la rigenerazione spirituale dell’uomo. Come Apollo, egli era precettore delle Muse e fonte di ispirazione. La sua regola non prescriveva alcuna dolorosa rinuncia: un simile giogo era facile da portare, e le sue sacerdotesse piene di letizia univano la gioia di vivere alla serietà del loro impegno e non facevano che celebrare la mitica età dell’oro, in cui la Terra aveva conosciuto un’eterna primavera, quando fontane di miele, latte e vino sgorgavano dal suo seno al tocco di un tirso. Dioniso era il “Liberatore” come Osiride, infatti liberava le anime e le accompagnava attraverso il processo di purificazione, reale e simbolico, alla loro dimora. Morì e discese nel regno delle Ombre, e la sua sofferenza era il grande segreto dei Misteri, come la morte è il grande segreto dell’esistenza. Era l’immortale esecutore dell’opera di Psyche (l’Anima), perciò chiamava il mondo all’essere e, scuotendo l’anima dal sonno morale, la restituiva dalla terra al cielo.
Gli Indi chiamavano il Sole Surya, i Persiani Mitra, gli Egizi Osiride, gli Assiri e i Caldei Bel, gli Sciti e gli Etruschi e gli antichi Pelasgi Arcaleo o Ercole, i Fenici Adonai o Adone, gli Scandinavi Odino.
Dal nome Surya, dato dagli Indi al Sole, la setta che più particolarmente era legata al suo culto si chiamò Souras. I loro pittori rappresentavano il carro del dio Sole trainato da sette cavalli.
Nel Tempio di Visweswara, in Benares, è conservato un antico frammento scolpito, in pietra, che lo rappresenta seduto su di un carro trainato da un cavallo con dodici teste. L’auriga, posto alla guida del cocchio è Arun, e i dodici cavalli indicano i suoi diversi poteri nei dodici mesi dell’anno. Questi poteri sono chiamati Aditya, e ciascuno di essi ha un nome particolare. Gli indiani pensavano che Surya fosse sceso varie volte sulla terra, sotto umane spoglie, e avesse lasciato in India una progenie terrena, come gli Eliadi presso i Greci. Egli è spesso chiamato Re delle Stelle e dei Pianeti, e così ci ricorda l’Adon-Tshauth (dio delle Stelle) della letteratura ebraica.
Mitra era il dio-sole dei Persiani, e si narrava fosse nato in una caverna, al solstizio d’inverno. Le sue feste erano celebrate nel periodo in cui il Sole cominciava a tornare al Nord. Questa era la grande festa della religione dei Magi. Il calendario romano, pubblicato ai tempi di Costantino, in quel periodo cioè in cui il culto solare cominciava a sorgere in Roma, fissò la sua festa il 25 di dicembre. Sulle sue statue o immagini era inciso: “Al dio del Sole, l’invitto Mitra”. A lui erano consacrati oro, incenso e mirra. Dice Marziano Capella nel suo inno al Sole: “Tu che gli abitanti del Nilo adorano come Serapis, quelli di Menfi come Osiride; che nei sacri riti della Persia sei Mitra; in Frigia, Ari; Ammone cui i Libici si inginocchiano; Adone dei libri dei Fenici, tutto il mondo ti adora sia pur con i differenti nomi”.
Osiride era figlio di Helios (Phra), la “divina progenie nata con l’alba”, e rappresenta in forma familiare l’aspetto benevolo di tutte le più alte emanazioni, e in lui era rappresentata la concezione di un essere totalmente buono, cosicché divenne necessario contrapporgli un altro potere, chiamato Set, Bahys o Tifone, per rendere conto delle influenze nefaste della Natura.
Alla pratica dell’agricoltura gli egizi riferivano le più profonde verità della loro religione. L’anima dell’uomo era come il seme nascosto nella terra, e le spoglie mortali, come esso consegnate all’oscuro riposto tombale, attendevano di essere restituite alla fonte della vita. Osiride non era solo il benefattore dei viventi, egli era anche Serapis, Ade e Radamanto, il re dei morti. “Morte” perciò, nella religione egizia, significava “palingenesi”, infatti il Dio che ad essa presiede è quello stesso che incessantemente rinnova la vitalità della Natura. Ogni corpo debitamente imbalsamato veniva chiamato “Osiride”, e nella tomba si credeva che fosse unito, o almeno prossimo, alla divinità.
Nella morte, come nella vita, Iside e Osiride erano modelli dell’umanità; i loro sepolcri si ergevano nei Templi degli Dei Supremi; e nonostante i loro resti fossero stati sepolti secondo la leggenda a Menfi come ad Abido, la loro divinità non ne era diminuita, ed essi splendevano come stelle in cielo, o posti nel mondo soprasensibile presiedevano al futuro degli spiriti che la morte, purificandoli, portava più vicini a loro.
L’idea della morte di un dio, così frequente nelle leggende orientali, e di cui abbiamo parlato nei Gradi precedenti, era la naturale conseguenza di una interpretazione letterale del culto della natura; infatti la natura, che le vicissitudini delle stagioni sembravano portare alla morte, rappresentava per i primi religiosi l’immagine espressa della Divinità, e anzi, in un periodo remoto, essa si identificava nel “Dio che cambia”, i cui attributi specifici non si esaurivano solo nella vitalità, ma anche nelle sue mutazioni. La Divinità, la cui idea era suggerita dal dramma della Natura, era adorata con riti partecipativi. Un periodo di pianto sull’Equinozio di autunno, e uno di gioia sul ritorno della primavera, era quasi universale.
La morte del dio, come era intesa dagli Orientali, non era in contrasto con la sua immortalità. Il temporaneo declino del “Figli della Luce” non è che un episodio della loro continuità eterna. Come il giorno e l’anno sono frazioni per noi comode del tempo infinito, così la morte violenta di Fetonte o di Ercole non è che interruzione del processo naturale che i Fenici intendevano come perpetuo rinnovamento, in virtù del quale lo spirito di Osiride vive in eterno nella successione dei sacerdoti di Api a Menfi. Ogni anno si celebra la resurrezione di Adone, e le lacrime versate dalle Eliadi per la morte prematura del loro fratello sono la goccia d’oro piena di prolifica speranza, in cui Giove discende dalla bronzea vetta celeste nel seno della terra bruciata.
Bal, rappresentazione o personificazione del Sole, era uno dei grandi dei della Siria, Assiria e Caldea, e il suo nome si trova sui monumenti di Nimrod e ricorre frequentemente nelle scritture degli Ebrei. Era per i babilonesi il grande dio della Natura, la forza del calore, della vita, della rigenerazione. Suo simbolo era il Sole, ed era raffigurato seduto su un toro. Tutti gli arredi del suo tempio di Babilonia, descritto da Erodoto, sono riprodotti con singolare fedeltà, ma in scala ridotta, nei tabernacoli dei templi ebraici. Manca solo il simulacro d’oro.
Il nome Bal, o Baal, come il nome di Adone, significa Signore e Maestro. Era la suprema divinità dei Moabiti, Ammoniti e Cartaginesi, e dei Sabeani in generale; i Galli adoravano il Sole sotto il nome di Belin o Belinus, e Bela è stato trovato rappresentato come Dio sugli antichi monumenti celtici. I Galli, invece dei Greci, mantennero, insieme a più severi costumi, anche uno stile religioso più virile di quello assunto dai popoli mediterranei e raffigurarono nel loro Perseo sia Ercole che Mitra, la somma cioè delle qualità che essi ammiravano.
Quasi ogni nazione conserva nelle proprie tradizioni la memoria di un mitico essere, le cui virtù e debolezze descrivono più o meno la vicenda del corso del Sole nelle stagioni. C’era un Ercole celtico, uno teutonico, uno scita, uno etrusco, uno lidio, e tutti avevano come archetipo l’eroe greco. Erodoto trovò che il nome di Ercole era da molto tempo familiare nell’Egitto e nell’Oriente in genere, e che in origine era stato attribuito a un personaggio ben più importante del relativamente moderno eroe conosciuto in Grecia come il figlio di Alcmena. Si diceva anzi che il tempio di Ercole a Tiro fosse stato costruito 2.300 anni prima di Erodoto, che Ercole, il cui nome greco si suppose essere di origine Fenicia, significasse “Circuitor” cioè il “viandante”, l’”errante” della terra, così come “Iperione” fosse il patrono, e il modello, di quei famosi naviganti che portarono i suoi altari di costa in costa in tutto il Mediterraneo, fino all’estremo Occidente. Qui “Arcaleo” fondò la città di Gades (Cadice), e un perpetuo fuoco ardeva in suo onore. Egli sarebbe stato discendente diretto di Perseo, il lucente Figlio delle Tenebre, concepito in una sotterranea camera bronzea; e questi non sarebbe stato altro che una diversa rappresentazione del persiano Mitra, che innalzava i suoi simbolici leoni sulle porte di Micene, e che portava la spada di Jemsheed per combattere le Gorgoni dell’Ovest.
Mitra è infatti descritto nello “Zend-Avesta” come il potente eroe, il veloce corridore, il cui occhio penetrante abbracciava tutte le cose contemporaneamente, le cui braccia impugnavano la clava con cui distrusse Darood.
Ercole, che con un ginocchio poggiato al suolo solleva la sua clava e la scaglia sul capo del Serpente, era, come Prometeo e Tantalo, una delle tante raffigurazioni del Sole che lotta per non tramontare. Le mitiche fatiche di Ercole non sono che rappresentazioni del cammino del Sole, che sempre si rinnova. Era nel lontano Nord, tra gli Iperborei, che, toltosi la sua pelle di leone, egli giaceva dormiente, perdendo per un po’ di tempo il controllo dei cavalli del suo carro. Perciò quella regione oscura all’estremo nord, chiamata “il luogo della morte e della resurrezione di Adone”, quel Caucaso i cui estremi settentrionali sono così lontani che, come il Meru dell’India, sembra essere la fine e l’inizio del ciclo solare, divenne per l’immaginazione dei Greci la fine di tutte le cose, il dominio dell’inverno, della desolazione, il pinnacolo dell’arco che univa i mondi superiori e inferiori, e di conseguenza il posto adatto per la pena di Prometeo. Le figlie di Israele, che piangevano Thammuz, come dice Ezechiele, sedevano rivolte a Nord e attendevano il suo ritorno da quelle regioni. Fu mentre Cybele, insieme al figlio del Sole, era tra gli Iperborei, che la Frigia, da lei abbandonata, soffrì gli orrori della carestia. Delo e Delfi attendevano il ritorno di Apollo dagli Iperborei, ed Ercole da lì portò ad Olimpia l’ulivo. Per tutti i massoni, questo Nord è stato, a memoria d’uomo, il regno dell’oscurità, e nessuna delle grandi luci della Loggia è situata a Nord.
“Giove” – dice Massimo Tirio – “non risparmiò il suo proprio figlio Ercole, né lo volle esimere dalle calamità connesse alla condizione umana”. La progenie tebana di Giove ebbe la sua parte di pene e sofferenze. Attraverso assillanti difficoltà terrene, provava la propria affinità col cielo. La sua vita fu una continua battaglia. Soccombette a Tifone nel deserto; e all’inizio dell’autunno “cum longa redi hora noctis” scese con la guida di Minerva all’Ade. Morì, ma prima fu iniziato da Eumolpo, per simbolizzare quello stato di preparazione religiosa che dovrebbe precedere il cambiamento, momentaneo, di “forma” di vita. Nell’Ade egli liberò Teseo e rimosse la pietra tombale di Ascalafo, rianimò gli spiriti senza corpo e trascinò alla luce del giorno il mostruoso Cerbero, giustamente reputato invincibile, in quanto simbolo del Tempo; ruppe le catene della morte e infine trionfò come all’alba della sua epopea, per essere ammesso dopo le sue fatiche al riposo celeste, nelle sue mansioni divine, vivendo con Zeus sempre e per sempre nell’eterna giovinezza.
La spigliata fantasia degli antichi, che tesseva la tela dei miti e delle leggende, era consacrata alla Fede. Non aveva, come le menti moderne, isolato un piccolo santuario di “credo” presi a prestito, al di fuori dei quali tutto è banale o poco chiaro.
Per quegli antichi popoli, questa Terra era il centro dell’Universo. Per loro non esistevano altri mondi popolati, con i quali spartire le cure e le attenzioni della Divinità. Per loro il mondo era un grande piano di ignote, forse inconoscibili, dimensioni, e il Sole, la Luna e le Stelle gli giravano attorno, per dargli luce. Perciò l’adorazione del Sole divenne la base di tutte le religioni dell’antichità.
L’idea primitiva di infinità spaziale esisteva nei primi uomini come esiste ora in noi, così l’idea di infinità temporale. L’uomo non può sapere perché ad una frazione di spazio se ne possa aggiungere sempre un’altra e perché ad ogni evento ne conseguano altri, in eterno. La mente umana troverà sempre un ostacolo, al cercare di comprendere come, non importa quanto grande sia il volume da noi considerato, debba esistere, al di là di esso, una sconfinata distesa senza limiti, in cui è il nulla. Allo stesso modo, l’idea di un tempo senza principio e fine forza e supera l’umana comprensione. Il tempo, senza eventi, è così vuoto, un nulla anch’esso.
Nello spazio vuoto, l’uomo primitivo sapeva non essere né luce né calore.
L’oscurità gli era nemica, malefica, ed egli ne avvertiva una vaga terribile paura. Era la vera materializzazione del genio del male; e l’uomo pensava che il male da essa fosse nato. Quando il Sole inclinava a Sud, verso quel vuoto, l’uomo tremava di terrore e quando, al solstizio d’inverno, cominciava di nuovo la marcia solare verso il Nord, egli gioiva e compiva riti sacri; come pure al solstizio d’estate, quando maggiormente appariva nel suo orgoglioso splendore. Questi giorni sono stati celebrati come festivi in tutte le nazioni civilizzate fino ai nostri tempi. Il cristiano ne ha fatto due festività ecclesiastiche, dedicandole ai due S. Giovanni; la Massoneria ha fatto lo stesso.
Noi conosciamo la distanza del Sole e la sua grandezza; abbiamo misurato le orbite delle più veloci comete e le distanze delle immobili stelle; conosciamo l’esistenza di soli uguali al nostro, ciascuno con la sua corte di pianeti, tutti governati dalle stesse infallibili leggi cosmiche; con i nostri telescopi abbiamo separato galassie e nebulose dalle loro stelle costituenti; scoperti nuovi pianeti, prima misurando le forze da essi esercitate, che disturbavano il moto di quelli già noti, poi imparando che tutti, Giove, Venere, il rosso Marte, e Saturno, così come la pallida, dolce e cangiante Luna, sono solo scuri, aridi, opachi globi come la nostra Terra, e non sono sfere brillanti di fuoco celeste. Abbiamo anche classificato e studiato i monti e le valli lunari, con telescopi che ci potrebbero mostrare distintamente il tempio di Salomone, se esso fosse lì nella sua originale antica interezza; noi possiamo calcolare le eclissi del Sole e della Luna, passate e future, per un arco di diecimila anni. Eppure noi con le nostre accresciute concezioni della potenza e degli attributi del Grande Architetto dell’Universo, ma con gli inevitabili limiti imposti all’uomo, non possiamo, neppure in minimo grado, sentire, ma solo in parte e imperfettamente immaginare, ciò che quei grandi, primitivi, ingenui figli della Natura sentivano rispetto a questi fuochi celesti, lì sulle cime dell’Himalaya, o nelle pianure caldee, o nei deserti di Persia e di Media, o sulle rive del Nilo.
Se dunque ci fermassimo alla superficie delle cose, l’antichità sarebbe solo inesplicabile, oscuro caos. Ma quando queste allegorie sono spiegate, cessano di essere assurde favole, o eventi folkloristici, e diventano lezioni di saggezza per l’intera umanità. Nessuno che le abbia studiate può dubitare che esse provengano da una radice comune. Anzi certamente si inganna chi spiega i miti antichi riferendoli ai fenomeni celesti e pensa che tutti gli dei celesti non siano che nomi dati al Sole, alle Stelle, ai Pianeti, ai segni dello Zodiaco, agli elementi, alle forze della Natura universale. Al contrario, risalendo alla più remota antichità che la luce della storia e il barlume della tradizione raggiungono, noi troviamo, presso tutti i popoli al di sopra di tutti gli dei che rappresentano le stelle o gli elementi, e di quelli che personificano gli innati poteri della Natura universale, una Divinità più elevata, indefinita, incomprensibile, il Supremo, l’Uno, da cui tutto il resto fluisce ed emana, o è da Lui creato. Oltre la dea Luna, Iside, e il dio-Sole Osiride degli Egizi, c’era Amun, il dio della Natura e sopra di lui ancora, l’infinita ineffabile divinità, Athom.
Brehm, il muto, assorto unico originario Dio che contempla se stesso, era per gli Indi la fonte di Brhama, Vishnu, Siva. Al di sopra di Zeus, o prima di lui, erano Kronos e Urano.
Al di sopra di Alohayim regnava il grande Dio della Natura e ancora al di sopra di lui era l’Ente Astratto, Ihun – colui che è, ed è stato, e sarà. Al di sopra di tutte le divinità persiane era il Tempo Illimitato, Zeruane-Akherene; e più alto di Odin e Thor v’era per gli scandinavi il dio Alfadir.
All’inizio l’uomo ebbe la Parola; e quella Parola era da Dio; ed oltre al potere vitale comunicato all’uomo con la Parola, venne la luce della sua esistenza. Dio fece l’uomo a propria immagine. Quando, per mezzo di una lunga successione di sconvolgimenti tellurici, Egli ebbe preparato la Terra ad essere la sua dimora, lo creò e pose in quella parte dell’Asia che tutti i popoli ormai definiscono “culla dell’umanità”, da cui poi la corrente umana fluì all’India, alla Cina, all’Egitto, alla Persia, all’Arabia, alla Fenicia. Egli comunicò all’uomo la conoscenza della natura del suo creatore e della pura, primitiva, religione. La peculiare e distintiva eccellenza del primo uomo, come pure la sua reale essenza, consistevano nella sua somiglianza a Dio. Egli impresse la propria immagine nell’anima dell’uomo. Quell’immagine è stata, nel cuore di ogni uomo e dell’umanità in generale, grandemente alterata, indebolita, snaturata, ma i suoi originali caratteri, ormai quasi cancellati, si possono trovare in tutti i più antichi poemi orientali; e quanto alla reale immagine, ogni mente che sia in grado di riflettere la troverà scrutando la sua anima.
Sebbene, per la sempre crescente degenerazione dell’umanità, questa parola primordiale di rivelazione sia stata snaturata da vari errori, coperta e oscurata da menzogne e sfigurata oltre ogni immaginazione, ancora sarebbe possibile ad una profonda verifica trovare nel paganesimo molte fondamentali vestigia della primitiva verità. Il vecchio paganesimo infatti aveva sempre una base di verità; e se noi potessimo separare quella pura intuizione della natura e dei suoi simboli, che ne costituiva il substrato, dal cumulo di errori e dalle aggiunte spurie, dietro quei primi geroglifici, che rappresentavano l’istintiva scienza degli uomini primordiali, apparirebbe la verità della reale conoscenza della natura, un’immagine di libera, pura, completa, perfetta filosofia di vita.
Il contrasto cha da allora dura, ed eterno durerà, tra la volontà divina e quella naturale nell’anima dell’uomo, ebbe inizio immediatamente dopo la creazione. Caino uccise suo fratello Abele e fuggì ramingo a popolare regioni lontane con una razza empia, dimentica e ostile al vero Dio. Gli altri discendenti del comune Padre si unirono con le donne della stirpe di Caino: e tutte le nazioni conservarono il ricordo di quella scissione della razza umana in giusti ed empi, nelle loro distorte e confuse leggende delle guerre tra gli Dei, i Giganti e i Titani. Allorché, in epoca posteriore, si verificò una ulteriore scissione, la sola stirpe di Seth conservò la religione e la scienza primitive, e le trasmise alla posterità negli antichi simboli e caratteri, su monumenti di pietra; e molti popoli conservarono nelle loro leggende la menzione delle colonne di Enoch e di Seth. Poi il mondo declinò dalla sua originale condizione di felicità verso l’idolatria e la barbarie, ma tutti i popoli conservarono memoria di quell’antico stato; e i poeti, soli storici di quei tempi, commemorarono la successione dell’età dell’oro, argento, bronzo e ferro.
In seguito l’interiore e divina parola, originariamente comunicata da Dio all’uomo, divenne oscura, e la connessione uomo-Dio fu spezzata, ed anche il linguaggio esteriore divenne necessariamente disordinato e confuso. La semplice divina verità fu ricoperta di varie sovrastrutture, celate da simboli fittizi, e infine pervertitesi in orrendi fantasmi. E, come il progredire dell’idolatria richiede, accadde che ciò che era da principio adorato come simbolo di un principio superiore, si confuse gradatamente e venne infine a identificarsi con l’oggetto stesso, e come tale fu venerato, e quest’errore portò ancora a forme di idolatria sempre più scandalose. I popoli antichi ricevettero molto della primordiale fonte di sacra tradizione; ma l’arroganza e l’orgoglio, che sembrano essere parte essenziale della natura umana, portarono ciascuno a presentare le reliquie frammentarie dell’originale verità come peculiare proprio possesso, esagerando così ciascuno il proprio valore e la propria importanza, assumendosi il ruolo di favoriti di Dio, da Lui scelti a popolo eletto, da Lui fatti edotti della sacra verità. Per fare di questi frammenti di verità propria esclusiva prerogativa, li riprodussero sotto forme particolari, celandoli con simboli, ricorrendo ad allegorie e inventando leggende. Così, invece di preservare nella sua primitiva e pura semplicità, la rivelazione, rivestirono la nuda verità di poetica bellezza, in modo che il tutto ha finito per assumere un aspetto fiabesco, finché almeno non si riesca, con una rigorosa e severa indagine, a scoprire la verità che la leggenda cela.
Solo col popolo cinese, patriarcale, semplice, isolato, l’idolatria non fece che piccoli progressi. Essi inventarono la scrittura dopo tre generazioni dal diluvio, e conservarono molto della primitiva rivelazione nelle loro tradizioni; ricorsero meno di altri popoli alle leggende per coprire la verità originale. Erano tra i più vicini alle fonti della sacra tradizione e molti passi dei loro più antichi scritti contengono notevoli elementi di eterna verità e molte parti della Parola rivelata, eredità di un pensiero ad essa preesistente. Ma tra gli altri popoli di quell’età, un fanatismo irrefrenabile e una sensuale idolatria presto caratterizzarono l’adorazione dell’Onnipotente, e posero in disparte, o snaturarono, la pura fede in un eterno Spirito increato. Le grandi forze e gli elementi della natura ricevettero adorazione quasi divina.
Gli animali che rappresentavano le costellazioni, dapprima riguardati come puri simboli, vennero poi venerati come dei; i cieli, la terra, i fenomeni della natura furono personificati; e personaggi mitici inventati per giustificare l’invenzione delle scienze e delle arti; gli stessi principi del bene e del male, personificati, divennero oggetto di venerazione; ma attraverso questi veli, ancora splendevano le lucenti tracce dell’antica rivelazione.
Familiarizzandosi con i primi scritti orientali, ci si rende conto sempre più che è molto probabile che essi derivino tutti da una stessa fonte. I declivi orientali e meridionali del Paropismus o Xlindukusch sembrano esser stati abitati da razze iraniane, con uguali abitudini, lingue, religioni. Le prime divinità indiane e persiane sono simboli di luci celesti. Le religioni di questi popoli erano all’inizio culto della natura, specie nelle sue manifestazioni di fuoco e di luce: le coincidenze sono troppo marcate per essere accidentali. Deva, Dio, è derivato dalla radice div, splendere. Indra, come Ormuz o Ahura Mazda, è il cielo stellato; Sura o Surya, il Celeste, uno dei nomi del Sole, viene riecheggiato dalle parole Zend: “Huare”, il Sole, da cui derivano anche Khur e Korshid, o Corasch. Uschas e Mitra erano per i Medi ciò che erano le divinità Zend e gli Amschaspand o “immortali esseri celesti” dello Zend-Avesta, cioè incarnazioni delle sette Stelle-Dio Vediche, le stelle dell’Orsa. Lo Zend-Avesta, come il Buddismo, rappresentò un’innovazione al confronto delle religioni precedenti; e fra i Parsee e i Bramini possono essere trovate tracce di uno scisma, oltre che parziali coincidenze. L’originale adorazione della natura, in cui erano combinate le concezioni di una Presenza universale e di un Principio attivo, si sviluppò poi per diverse vie, dovute anche alla differenza fra i modi di pensare.
I primi pastori del Panjab, chiamato allora la terra dei sette fiumi, alla cui ispirata o infusa saggezza, quella dei Veda, noi dobbiamo le prime espressioni religiose, chiamavano con nomi di esseri viventi gli oggetti della loro adorazione. Primo, in questa scala di dei era Indra, dio del firmamento “blu” o “lucente”, chiamato Devaspiti, padre dei Deva o Forze degli elementi, che era al di fuori del cerchio dei cieli e aveva creato la terra; l’ideale dominio di Varouna “Onnicomprendente” è quasi altrettanto esteso, e include aria, acqua, notte e il vuoto tra il cielo e la terra; Agni, che è presente nel fuoco del sacrificio, sul focolare domestico e nelle luci celesti, è il grande intermediario tra Dio e l’Uomo; Uschas, l’Alba, che guida gli dei al mattino nel loro quotidiano viaggio nel corpo impuro dell’offertorio della natura, di cui il sacerdote officiante può solo comporre una simbolica imitazione. Poi vengono i vari dei-Sole: Adityas gli attributi solari, Suria il Celeste, Savitri il progenitore, Pashan il Dispensatore di cibo, Bagha il Dispensatore di Felicità e Mitra l’Amico.
La creazione eseguita dall’Essere Eterno era rappresentata come un matrimonio, essendo la sua prima emanazione la madre universale, che si supponeva potenzialmente coesistente con Lui per l’Eternità o, in linguaggio simbolico, sua “moglie e sorella”.
Le più popolari forme o manifestazioni di Vishnu il Conservatore furono le sue successive avataras, o personificazioni, che mostravano come la Divinità, uscita dall’alone di mistero incomprensibile che circondava la Sua natura, si rivelasse nelle epoche critiche della storia in cui nel mondo, sia fisico sia morale, si produceva un nuovo periodo di prosperità e di ordine. Combattendo il potere del male nelle varie manifestazioni, la Divinità, pur variando aspetto, è sempre la stessa, o che figuri come promotrice di innovazioni economiche e sociali, in epiche vittorie contro i nemici, o in strani fenomeni fisici di cui a volte a fatica troviamo traccia esaminando accuratamente le scritture e studiando le teorie cosmogoniche. Come Rama, l’epico eroe armato di spada, lancia e arco, prototipo di Ercole e Mitra, Vishnu lotta con i Patriarchi ebrei contro le Forze delle Tenebre; come Chrishna-Govinda, il Pastore Divino, messaggero di pace, riempie il mondo di musica e di amore. Sotto le umane spoglie, non cessa mai di essere il Sommo. Egli dice nel Bhagavad-ghita: “Lo stolto, incapace di comprendere il mistero della mia natura divina, mi disprezza in queste forme umane. Invece gli uomini di senno, che racchiudono in sé la luce del Principio divino, mi riconoscono come l’Incorruttibile e il Protoesistente, e mi obbediscono senza esitazione”. E ancora: “Io non sono riconosciuto da tutti come essere concepito dal potere sovrannaturale che è in me; eppure a me sono note tutte le cose passate, presenti e future; io ero prima di Vaivaswata e Menou. Io sono il supremo Dio, creatore del mondo, l’Eterno Poorooscha (Dio-Verbo-Uomo, o Genio del Mondo). E nonostante io sia per mia natura sottratto alle leggi della vita e della morte, e sia Signore di tutto il Creato, pure spesso, poiché la virtù è indebolita e prevalgono il vizio e l’ingiustizia, io mi manifesto e mi rivelo, di età in età, per salvare il giusto, punire il colpevole e sorreggere i vacillanti passi della virtù. Chi mi conosce anche così, quando lasciando la sua spoglia mortale non entrerà in un’altra, perché entrerà in me, e molti che hanno creduto in me fanno già parte di me, purificati dalla virtù della saggezza. Io aiuto chi cammina sulla mia strada”.
Brahma, l’agente creatore, si sacrificò quando, confondendosi con la materia, si identificò con la propria opera; e la sua storia è quella dell’Universo. Così, e benché Signore di tutte le creature (Prajapati), egli partecipava dell’imperfezione e della corruzione di una natura inferiore e, calatosi in forme molteplici e corruttibili, si potrebbe dire, come del dio greco Urano, che si mutilasse e si degradasse. In tal modo Egli combinava due caratteri, l’immortale e il mortale, l’essere e il non essere, il moto e la quiete. Come incarnazione dell’Intelligenza, o Verbo, Egli comunicava all’uomo ciò che Gli era stato rivelato dall’Eterno, perché Egli è l’anima e il corpo della creazione, e dentro di Lui è impressa la divina Parola, in caratteri che ogni spirito cosciente è capace di interpretare.
I principi fondamentali della religione Indù consistevano dunque nella fede nell’esistenza di un solo Dio, nell’immortalità dell’anima e nell’esistenza di uno “stato” futuro di premio o di castigo. I suoi precetti eretici inculcavano la pratica della virtù come necessaria per procurarsi la felicità, anche in questa vita effimera, e le sue dottrine religiose facevano dipendere da tale pratica la felicità nel mondo ultraterreno.
Faceva parte della loro dottrina quest’altra teoria: “Un solo grande e ineffabile Dio è esistito per tutta l’Eternità. Tutto ciò che conosciamo, inclusi noi stessi, non è che una sua emanazione. L’anima, la mente e l’intelletto degli dei e degli uomini, e di tutte le creature intelligenti, sono elementi temporaneamente separati della Sua anima e ad essa, al tempo stabilito, torneranno. Ma la mente degli esseri limitati è piena di una ininterrotta serie di illusioni, che essi confondono con la realtà se non riescono ad attingere alla grande fonte della saggezza. Di queste illusioni, la prima ed essenziale è il sentimento della propria individualità. A causa di essa, l’anima dimentica la propria natura e origine, e il suo destino. Si considera un’entità a sé, non più una scintilla della Divinità, anello di un’infinita catena, una piccola e indispensabile porzione di un grande Tutto”.
La tendenza a indugiare nell’immaginazione spinse i primi uomini a personificare quelli che essi intendevano quali attributi di Dio, forse allo scopo di presentare le cose in una forma più adatta alla comprensione del popolo di quanto non lo sia l’astratta idea di “ineffabile”, invisibile Dio; di qui l’invenzione di un Brahma, un Vishnu, un Siva.
Ogni creatura dotata di facoltà raziocinanti doveva essere ai loro occhi conscia dell’esistenza di Dio, come Prima Causa; ed essi consideravano non solo prova di follia, ma anche di estrema empietà il cercare di spiegare la natura di quest’Essere, o anche in ogni modo il tentare di assimilarlo a noi.
I filosofi Vedanta e Nyaya riconoscevano i principi dell’unicità del Supremo Essere e dell’immortalità dell’anima. Essi parlano dell’Essere Supremo come di una eterna essenza che pervade lo spazio, fonte di vita e di esistenza. Di tale spirito immanente, universale ed eterno, i Vedanta immaginarono quattro forme; ma poiché essi si riferiscono alla sua natura, sarebbe erroneo attribuire a ciascuna di esse una distinta essenza.
Essi non considerano la creazione istantanea produzione di tutte le cose, ma solo una manifestazione di ciò che eternamente esiste nell’Essere Supremo. I filosofi Nyaya credono che spirito e materia siano eterni; ma non affermano che il mondo sia esistito nella sua attuale forma dall’eternità: ciò che è eterno è la materia prima da cui esso è scaturito quando su di essa operò la Parola dell’Onnipotente, la causa intelligente che produsse le combinazioni e le aggregazioni che portarono all’universo fisico. Sebbene credano che l’anima sia un’emanazione dell’Essere Supremo, pure la distinguono da quell’’Essere, nella sua individuale esistenza.
Verità e Intelligenza sono per loro gli eterni attributi di Dio e non dell’anima individuale, che è suscettibile di conoscenza e ignoranza, di piacere e di pena; perciò Dio e l’anima sono distinti. Anche quando questa ritorna all’Eterno, e riceve la suprema benedizione, indubbiamente non si annulla. Benché unita all’Essere Supremo, non è in Esso assorbita, ma possiede ancora l’astratta natura di definita e visibile esistenza.
“La dissoluzione del mondo – essi affermano – consiste nella distruzione delle forme e qualità visibili delle cose, ma l’essenza materiale rimane, e da essa nuovi mondi sono formati dall’energia creatrice di Dio: e così l’universo è dissolto e rinnovato in una successione senza fine”.
I Jaunas, una setta presente a Mysore e in altri luoghi, affermano che l’antica religione dell’India consisteva nell’adorazione di un Dio, un puro Spirito, indivisibile onnisciente e onnipotente. Questo Dio, preordinato il corso degli eventi e data all’uomo una sufficiente facoltà raziocinante o intelletto, che lo guidi nella sua condotta, lo lascia arbitro del suo destino. Senza il libero arbitrio l’uomo stesso non potrebbe essere ritenuto responsabile della proprie scelte.
Menou, il legislatore Indù, adorava non il Sole visibile, materiale, ma “quella divina e incomparabilmente maggiore luce che – per usare la parole del più venerabile testo delle Scritture indiane – illumina tutto, delizia tutto, da cui tutto procede, a cui tutto tornerà, e che solo può irradiare i nostri intelletti”.
Gli antichi Persiani riecheggiarono sotto molti aspetti gli Indù, nel linguaggio e nelle tradizioni. Le loro conquiste li portarono a contatto con la Cina, ed essi sottomisero anche l’Egitto e la Giudea. Le loro concezioni su Dio e sulla religione rispecchiavano in modo particolare quelle degli ebrei e infatti il popolo di Giuda prese da essi alcune tra le più importanti dottrine; proprio quelle che noi siamo soliti ritenere parte essenziale dell’originale credo ebraico. Essi, come gli Ebrei, parlavano di un Re del Cielo, Padre di Eterna Luce, di un Puro Mondo di Luce, di un’eterna Parola dalla quale tutte le cose vennero create, di sette potenti Spiriti vicini al trono della Luce e dell’Onnipotente, della gloria di queste Luci celesti, dell’origine del male e del Principe delle Tenebre, monarca degli spiriti ribelli, nemici di ogni bene. I Persiani provavano il più forte disprezzo per l’idolatria, e sotto il regno di Cambise seguirono un regolare piano per estirparla. Serse, quando invase la Grecia, ne distrusse i templi, ed eresse are sacre lungo l’intero suo percorso; la loro religione era eminentemente spirituale, e i fuochi e i sacrifici erano solo segni simbolici di una devozione diversa per un più alto potere.
Così la dottrina fondamentale dell’antica religione dell’India e della Persia era all’inizio una semplice adorazione della natura, dei suoi elementi puri e delle sue primarie energie. Tali erano il fuoco sacro e, soprattutto, la luce, l’aria, intesa non come atmosfera, ma quale puro e chiaro etere celeste, il soffio che pervade e anima il respiro della vita. Questa semplice venerazione della natura è forse la più antica, e fu di gran lunga la predominante nel mondo primitivo.
Non si trattava comunque di una deificazione della natura, o di una negazione della sovranità di Dio. Questi elementi puri e queste energie primarie della natura creata offrivano ai primi uomini, ancora in stretta comunicazione con la Divinità, non una somiglianza esteriore, o una fantastica immagine di poetica visione, ma un naturale e vero simbolo del divino potere. Dovunque nelle scritture ebraiche la pura luce o il sacro fuoco figurano come immagini dell’onni-immanente e onniardente potere e onnipresenza della Divinità.
Il Suo respiro era la prima fonte di vita.
“Tutte le cose sono progenie di un solo fuoco. Il Padre le creò tutte e ne affidò la conservazione alla Seconda Mente, che tutti i popoli chiamano il Sommo. La natura coesiste con il potere intellettuale del Padre; infatti è l’Anima che riveste il grande Cielo, dopo il Padre. L’Anima, essendo puro fuoco, grazie al potere del Padre, è immortale ed è dispensatrice di vita e riempie tutti i luoghi del mondo. Il fuoco non poteva esplicare i suoi effetti tangibilmente fin tanto che una volontà non intervenisse a dargli vita. Luce generata dal Padre! Solo il fuoco, creato dal Padre, è capace di comprendere la mente del Padre, e di instillare in tutte le fonti e i principi la capacità di comprendere e di rinnovare sempre un movimento senza fine”. Tale era il linguaggio di Zoroastro, che rappresenta l’antico pensiero Persiano.
Ormuzd dice a Zoroastro, nel Boundehesch: “Io sono colui che regge i cieli coperti di stelle nello spazio etereo; colui che rende questa sfera, una volta immersa nell’oscurità, un profluvio di luce. Per mezzo mio la Terra divenne un pianeta duro e compatto, e su di essa cammina il Signore del mondo. Io sono colui che fa sì che la luce del Sole, della Luna e delle Stelle trapassi le nuvole. Io faccio maturare il grano, il cui seme caduto nella terra cresce di nuovo … Io creai l’uomo, i cui occhi sono luce, la cui vita è respiro. Io posi in lui la scintilla vitale di un potere inestinguibile”.
Tra la vita e la morte, tra lo splendore solare e l’ombra, Mitra è la presente personificazione di quella primordiale Unità da cui tutte le cose sorsero e a cui, attraverso la sua mediazione, tutti i contrari saranno assorbiti. Il suo annuale sacrificio è il rinnovarsi delle cariche dei Magi, un richiamo simbolico di rigenerazione morale e fisica. Egli suscita una nuova corrente di vita per rinvigorire la Natura, così alla fine del mondo egli porterà la pesante eredità dei tempi, davanti a Dio, lasciando quale estremo sacrificio l’Anima della Natura alla sua forma mortale per iniziare una nuova più alta esistenza.
Giamblico (de Mys., VIII, 4) dice: “Gli Egizi sono molto lontani dall’ascrivere tutte le cose a cause fisiche. Essi distinguono infatti il principio vitale e l’intelligenza da ogni essenza materiale, sia nell’uomo che nell’universo. Essi pongono l’intelletto e la ragione come primi e auto-esistenti, e da essi derivano il mondo creato. Come ordinatore del creato essi pongono un demiurgo e riconoscono una forza vitale sia nei cieli che prima dei cieli. Essi pongono il puro Intelletto al di sopra e oltre l’Universo, e un altro essere incorruttibile (la Mente, rivelata al mondo materiale), che pervade l’Universo e si spande in tutte le sue parti e sfere celesti”. L’antica concezione degli Egizi era dunque quella di tutte le filosofie trascendentali, secondo cui esiste una divinità ad un tempo immanente e trascendente, uno Spirito che si manifesta senza mai perdere la sua vitalità.
La saggezza trasmessa dai papiri “canonici” di Ermes è facilmente riconducibile a questa credenza. Per esempio a Tebe si dice che fosse venerato un Essere senza inizio né fine, chiamato Amun, o Amun-Kneh, l’onnimanente Spirito, o Respiro della Natura. Un tale Essere sarebbe stato a capo dei tre ordini di divinità menzionati da Erodoto, ove ad essi si riguardi come un’arbitraria classificazione di esseri simili o uguali, divisi in successive emanazioni, secondo una stima della loro comparativa dignità. Gli otto grandi dei, o prima classe, erano probabilmente manifestazioni dirette della Mente divina, nelle numerose parti e forze dell’Universo.
Negli antichi libri ermetici, come tramanda Giamblico, era costantemente riferita all’Essere Supremo la seguente espressione: “Prima di tutto ciò che attualmente esiste e prima di tutte le cose c’era un Dio, anteriore anche ai primi dei sovrani, uno e immutabile nella maestà della propria Unità; di Lui non possiamo farci alcun concetto. Egli è infatti alla fonte di tutte le cose, e alla base dei pensieri concepiti dall’intelletto; che sono le prime cose ad esistere. E da questo Uno, l’auto-creato Dio originò se stesso e si manifestò. In questo senso Egli è Padre di se stesso, autocreazione. Infatti Egli è insieme inizio, Dio degli Dei, Monade l’Uno, antecedente alla sostanza e all’inizio della sostanza, perché da Lui sono e la sostanzialità e la sostanza. Perciò anch’Egli è chiamato l’inizio delle cose concepite dall’intelletto. Questi dunque sono i più antichi principi di tutte le cose, che Hermes pone davanti agli eterei ed empirei e celestiali dei”.
“Chang-ti, o il Supremo Signore l’Essere – diceva l’antico credo cinese – è il principio di tutto ciò che esiste, e Padre di tutti i viventi. Egli è eterno, immobile, indipendente. Il Suo potere non conosce confini: la Sua vista abbraccia ugualmente Passato, Presente e Futuro, penetrando fin nei più intimi recessi del cuore. Il Cielo e la Terra sono sotto il suo governo: tutti gli eventi, tutti i mutamenti, sono frutto della Sua volontà dispensatrice. Egli è puro, santo, imparziale; la malvagità offende il Suo sguardo; al contrario, Egli guarda compiaciuto alle azioni virtuose dell’uomo. Severo, ma giusto, punisce il vizio in maniera esemplare, anche nei principi e nei sovrani. Spesso abbatte il colpevole per incoronare d’onore l’uomo che cammina secondo il proprio cuore, e che Egli solleva dall’oscurità. Buono, clemente, pietoso, perdona il malvagio dopo il suo pentimento, e le pubbliche calamità e le irregolarità delle stagioni non sono che salutari avvertimenti che la sua paterna bontà dà all’uomo, per indurlo a pentirsi e a ravvedersi”.
Governato dalla ragione più che dall’immaginazione, il popolo cinese non cadde nell’idolatria fino a dopo il tempo di Confucio, due secoli prima della nascita di Cristo; quando la religione di Budda fu portata lì dall’India. Il culto praticato fu a lungo ispirato dalla pura adorazione di Dio, e i fondamenti di quell’ordinamento e di quel credo morale riposavano su una solida, giusta ragione, conforme alle vere idee della Divinità. Essi non avevano falsi dei o idoli e il loro terzo imperatore, Hoam’ti, eresse un Tempio, il primo probabilmente mai eretto al Grande Architetto dell’Universo.
Confucio quindi vietò di raffigurare con immagini o qualunque altra rappresentazione la Divinità. Egli non applicò nessuna idea di personificazione ad essa, ma la considerò come un potere o un principio, che pervade tutta la natura. Perciò i Cinesi designavano la Causa Prima col nome di “Divina Ragione”.
I Giapponesi credevano anch’essi in un Supremo Essere invisibile, che essi chiamavano Amida o Omith, e dicevano che era senza principio e senza fine; che era venuto sulla Terra, dove era rimasto mille anni, diventando il Redentore della specie umana. Dicevano inoltre che Egli giudicava tutti gli uomini, e che il buono vivrà per sempre, mentre il cattivo sarà condannato in eterno.
Gli Arabi non ebbero mai una forma di politeismo né poetico, né religioso, né filosofico. Le loro tradizioni storiche presentano molte analogie con quelle degli Ebrei. La pura fede e l’adorazione della divinità, quale era stata insegnata dai Patriarchi, non appare mai totalmente estinta tra di loro. Perciò l’idolatria non poté guadagnare molti consensi fin quasi al tempo di Maometto, il quale, riconducendosi alla fede primitiva, insegnò la dottrina monoteistica, annunciandosi profeta del vero Dio.
Tra i Greci, discepoli degli Egizi, tutte le più alte idee e le più severe dottrine sulla Divinità furono esposte da Pitagora, Anassagora e Socrate e giunsero alla forma più alta e più composta per merito di Platone.
La conoscenza delle primitive verità giunse a Pitagora da Zoroastro, che a sua volta le aveva ricevute dagli Indiani. I suoi discepoli rifiutavano l’uso dei templi, altari, effigi e irridevano la follia di quei popoli che immaginavano che la Divinità derivasse o avesse qualche affinità con la natura umana. Le cime delle più alte montagne furono i luoghi scelti per i sacrifici. Il Dio Supremo, che riempie il vasto cerchio dei Cieli, era l’oggetto al quale tali preghiere erano indirizzate, secondo la testimonianza di Erodoto. Essi consideravano la Luce non tanto come oggetto di culto, ma piuttosto come il più puro e vivente emblema, prima emanazione dell’eterno Dio.
“Se noi risaliamo – dice il Muller – ai più remoti albori della storia greca, l’idea di un Dio come Essere Supremo ci si presenta come un semplice dato di fatto. Oltre all’adorazione di un Dio, Padre del Cielo, e degli uomini, troviamo in Grecia la contemplazione della Natura”.
Zeus era il Dio degli Dei, chiamato dai Greci “Figlio del Tempo”, a significare che non esisteva alcun Dio prima di Lui, e che Egli era eterno. “Zeus” dice un codice orfico “è l’inizio, Zeus è ciò che sta in mezzo, da Lui tutte le cose sono state create”.
Zeus (Zeus fu, Zeus è, Zeus sarà: o grande Zeus), Egli era Zeus (Zeus, il migliore e il più grande).
I Parsee, tramandando la vecchia religione insegnata da Zadischt, dicono nel loro catechismo: “Noi crediamo in un solo Dio, e in nessuno al di fuori di Lui; Egli creò i Cieli, la Terra, gli Angeli. Il nostro Dio non ha volto, né forma, né colore, né aspetto, né è presente in alcun luogo. Non c’è nessun altro come Lui, né la nostra mente può concepirlo”.
Tra gli Ebrei era fatto divieto di pronunciare la parola Tetragrammaton, o qualche altra parola che ad esso alludeva. Per impedire che tale parola andasse perduta tra i Leviti, il Gran Sacerdote la pronunciava una volta l’anno, nel Tempio, il decimo giorno del mese di Tisri, il giorno della grande festa dell’espiazione. Durante questa cerimonia il popolo ebraico era obbligato a innalzare grandi clamori, affinché la sacra parola non potesse essere udita da alcuno che non ne avesse diritto. Per qualsiasi profano il semplice udirla sarebbe stato come una condanna a morte.
I grandi iniziati Egizi, anteriori nel tempo agli Ebrei, seguivano la stessa pratica riguardo alla parola “Iside”; tale parola era infatti da essi ritenuta sacra e incomunicabile.
Origene dice: “Vi sono nomi che hanno una potenza naturale. Tali sono quelli che usavano i Saggi in Egitto, i Magi in Persia, i Bramini in India. Ciò che è chiamato ‘magico’ non è solo un’azione vana o chimerica, come pretendono Stoici ed Epicurei. I nomi Sabaoth e Adonai non furono coniati a caso, ma appartengono a una misteriosa teologia, che risale fino al Creatore. Da Lui proviene la virtù di tali nomi, quando sono scritti e pronunciati secondo certe regole”.
La parola Indù “Aum” rappresentava i tre poteri combinati nella loro divinità: Brahma, Vishnu e Siva, cioè le forze creatrici, conservatrici, distruttrici.
La parola “Aum”, dice il Ramanuja, rappresenta “l’Essere degli Esseri, Unica Sostanza in tre forme; senza modi, senza qualità, senza passioni: immenso, incomprensibile, infinito, indivisibile, immutabile, incorporeo, irresistibile”.
Erodoto tramanda che gli antichi Pelasgi non costruivano templi, né adoravano idoli, e avevano un sacro nome per la divinità, nome che non era assai antico. Venendo interrogato su quale delle divinità fosse chiamata così, rispose: “Gli iniziati sono tenuti a celare i segreti misteri. Sappiate perciò che è il Gran Dio supremo che regna su tutto”.
Gli Ebrei pensano che il vero nome di Dio sia irrimediabilmente caduto in disuso, non sapendo neppure pronunciarlo. Ritengono che questo e altri misteri saranno rivelati alla venuta del loro Messia. Essi attribuiscono la perdita del nome sacro alla decisione di ricorrere nella trascrizione del nome di Dio ai “punti masoterici” e alla conseguente abolizione delle vocali della parola. E’ detto anche, nel Gemara di Abodah-Zara, che Dio avrebbe permesso che un celebre iniziato ebreo venisse bruciato vivo da un Imperatore Romano, per aver pronunciato la parola sacra contrariamente alle norme della riservatezza tradizionale.
I Giudei temevano che i pagani si impossessassero della parola: perciò nelle Scritture essa figura in caratteri samaritani, anziché ebraici o caldei, affinché i nemici non ne potessero fare improprio uso. Essi infatti attribuivano a quel nome virtù miracolose e affermavano che le sventure dell’Egitto erano state provocate da Mosè, il quale aveva inciso tale nome sul suo bastone. Ogni persona che ne avesse appreso l’esatta pronuncia sarebbe stata capace di ripetere ciò che Mosè aveva operato.
Giuseppe racconta che il nome di Dio era sconosciuto, finché Dio stesso non lo rivelò a Mosè nel deserto. La parola era andata perduta per la malvagità dell’uomo.
Anche i seguaci di Maometto riferiscono una tradizione secondo la quale esiste un nome segreto della Divinità che possiede miracolose proprietà e che il solo mezzo per conoscerlo è quello di farsi iniziare ai misteri dell’Ism-Abla.
Presso tutti i più antichi popoli, la dottrina dell’immortalità dell’anima era riguardata non come una probabile ipotesi, che necessita di laboriose ricerche e profonde argomentazioni per produrre convinzioni della sua verità. Non si creda però che essa costituisse la base per una qualche particolare forma di culto. Era piuttosto una vivente certezza, come il sentimento della propria esistenza e identità, o la sensazione di una cosa reale.
Anche la dottrina della trasmigrazione delle anime, universalmente diffusa tra gli Indù e gli Egizi, riposava sulla base dell’antica religione primitiva e si riconnetteva a un sentimento puramente religioso. Tale dottrina aveva in sé questo nobile elemento di verità: poiché l’uomo aveva vagato nel peccato e si era allontanato da Dio, sarebbero serviti molti sforzi e sarebbe stato necessario affrontare le fatiche di un lungo e penoso pellegrinaggio prima che l’uomo potesse ricongiungersi alla fonte di tutte le perfezioni. Essa si esprimeva anche nella ferma convinzione e positiva certezza che niente di difettoso, impuro o macchiato di colpe terrene, possa mai entrare nella pura regione dei perfetti spiriti, ed essere eternamente unito a Dio, perciò l’anima doveva superare molte difficili prove e conoscere successive e graduali purificazioni prima di raggiungere la meta celeste.
Pitagora diede alla dottrina della trasmigrazione delle anime quello stesso significato che i saggi Egizi le avevano attribuito nei loro Misteri. Perciò egli non insegnò mai tale dottrina nella forma volgare in cui era nota al popolo.
Ierode, uno dei suoi più zelanti e noti seguaci, espressamente dice che chi crede che l’anima dell’uomo, dopo la morte, passerà nel corpo della bestia, per i suoi vizi, o diventerà una pianta, per la stupidità, si inganna di gran lunga e che anzi è assolutamente ignorante circa il mistero dell’immortalità dell’anima, che è immutabile. L’uomo resta sempre uomo, si dice che può diventare Dio o bestia, attraverso la virtù o il vizio, solamente per indicare una sua qualche inclinazione verso tali estremi.
Timeo di Locri, un altro pitagorico, dice che per tenere gli uomini lontani dalle perfide e vili azioni essi erano minacciati con la prospettiva di strane umiliazioni e punizioni, dichiarando sempre che le loro anime sarebbero passate in nuovi corpi, per esempio quella di un rapace nel corpo di un qualche animale feroce, e quella di un sensuale nel corpo di un maiale.
Ed è in tale forma che la dottrina è esposta da Platone nel Fedone. E Lisia dice che dopo che l’anima, finalmente purificata, è ritornata al cielo, non è più soggetta a cambiamenti o a morte, ma gode di un’eterna felicità. Secondo gli Indù, essa si ricongiungeva all’Anima Universale che vivifica ogni cosa.
Anche nelle dottrine del Lamaismo troviamo, sia pure oscurati e velati da leggende, frammenti della primitiva verità. Infatti secondo tale religione, “Vi sarà un giudizio finale davanti a Eslik Khan; i buoni saranno ammessi al Paradiso, i cattivi condannati all’Inferno, che è diviso in otto regioni di fuoco e otto di ghiaccio”.
interessante.
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