Apollo è il dio della sapienza, in modo esplicito e pacifico. Difatti il conoscere tutto, la tracotanza del conoscere, spetta soltanto alla divinazione, nella sfera arcaica, e quest’arte è concessa da Apollo. Ce lo dice Omero a proposito di Calcante, “che conosceva ciò che è e ciò che sarà e ciò che è stato prima”. Riguardo a Dioniso si è detto che la sapienza è la cifra del suo essere, che la tracotanza del conoscere è un’indicazione della sua natura: la sapienza è l’impossibilità realissima che sta dentro di lui, non è qualcosa che egli conceda ad altri, che trasferisca fuori di sé. Apollo invece dà la sapienza agli uomini, o meglio a un uomo, ma lui se ne sta in disparte, lui è un dio “che agisce da lontano”. E la sua sapienza non è quella che trasferisce fuori, poiché lui possiede “l’occhiata che conosce ogni cosa”, mentre la sapienza che concede è fatta di parole, è qualcosa perciò che riguarda gli uomini.
Risulta così subito chiaro che tra i due dei esiste da un lato una profonda affinità – per lo stretto riferimento di entrambi alla sapienza – e d’altro lato una netta antitesi, nel carattere e nel manifestarsi.
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… È soprattutto il celebre passo del Fedro platonico sulla mania che mette in evidenza l’identità di natura tra i due dei. Dioniso “induce gli uomini alla follia” ed è lui stesso “folle”; Apollo suscita la follia nel divinatore, ma lui è “lontano”: in cambio però la mania in senso eminente è la mantica, e, in Platone almeno, il dio della mania è soprattutto Apollo. Ma la mania sta in rapporto con la sapienza, già lo si è visto; è per così dire un segnale della sapienza, un suo annunzio. Diventando folle, la baccante riceve in se stessa Dioniso, la cifra della sapienza. E il divinatore riceve da Apollo la parola che non comprende e pronuncia “con bocca folle”, ma che sarà interpretata come sapienza. La mania è la sapienza vista dal di fuori, nel suo primo mostrarsi, nel primo apparire come visione, danza, contatto, suono percepito, non ancora ascoltato.
Questo per l’identità di natura: quanto all’antitesi tra i due dei, dopo quanto si è detto di Dioniso, basterà accennare ora ai caratteri salienti della figura di Apollo e della sua azione. Una contraddittorietà, non universale come in Dioniso, ma invece ben individuata, emerge anche in Apollo, e si mostra nei suoi due attributi dominanti, l’arco e la lira. Qui sta la precisa doppiezza di Apollo: la faccia benigna ed esaltante accanto a quella terribile e devastante. Da un lato l’arte, la musica suadente, l’apparenza gratificante e l’immagine di bellezza del sogno, quell’illusorietà insomma che Nietsche ha suggerito come connessa al significato di “apollineo”. Ma d’altro lato la faccia malvagia, la sostanza profonda che si contrappone a quell’illusorietà, l’arma omicida che da lontano scaglia la sua freccia. E proprio cercando un’antitesi parallela in Dioniso, ci accorgiamo della distanza tra i due dei. Ecco infatti l’azione della musica ispirata dall’uno o dall’altro dio. La lira – o la cetra – ammalia, seduce, soggioga, rende mansueti animali feroci, uomini e alberi, come si narra del cantore apollineo Orfeo: “e diritti dall’acqua turchina balzavano in alto i pesci per il canto bello”. Ma il suono del flauto di Dioniso è “un richiamo minaccioso suscitatore di follia”. E d’altro canto l’atto omicida di Apollo è mediato dalla freccia e dal suo volo, il dio rimane staccato dalla sua vittima, mentre Dioniso uccide direttamente la sua preda, la colpisce col tirso o addirittura la sbrana e la divora, la fa entrare dentro di sé. Con la musica e la sua arma Apollo esercita una potenza, la fa sopraggiungere e presentire a chi ne è oggetto; Dioniso invece, aggredendo e abbracciando, si trasmette, si confonde con il suo oggetto.
Ma prima si è detto che Apollo concede agli uomini la sapienza, attraverso la divinazione. Con il simbolo panellenico di Delfi, i Greci hanno dichiarato questa come l’azione culminante di Apollo. Anche la divinazione, tuttavia, è uno strumento con cui Apollo esercita la sua potenza. Il dono è anche una freccia. La celebre oscurità dell’oracolo pitico lo conferma, e l’esercizio di questa potenza avviene in modo malvagio, indiretto, ostile. Il dio si serve della parola, di qualcosa che non appartiene alla sua sapienza: della parola egli si serve come di un intermediario – anche la freccia è un suo intermediario – per suscitare la sapienza nell’uomo. Ma la sapienza del dio consiste in un’occhiata, quella attraverso la parola è un’altra sapienza: la comunicazione è indiretta e richiede l’intervento di un uomo, di un individuo. Anzitutto di uno che possa venir travolto dalla mania di Apollo (la follia di Dioniso è collettiva), del divinatore posseduto, dalla cui bocca esce la parola divina, da lui non compresa. Questa follia individuale non basta per la comunicazione: ancora più oscura per chi non è folle, rimane la parola dell’oracolo che attende un interprete, un altro individuo che sobriamente l’esamini, la metta a confronto con altre parole, ne derivi altre parole in un discorso collegato, vincolato, illuminante. Questa è la nascita della ragione, che al suo primo apparire si presenta in espressioni compresse, enigmatiche, ancora vicine alla matrice divina, ma che è già sapienza individuale. Ed ecco che a un interprete della parola di Apollo si oppone un altro interprete, la sapienza individuale suscita l’invidia. Si mostra la crudeltà di Apollo: chi nasce alla sapienza non ne gode, è intrappolato in una tenzone perigliosa (quella per la conoscenza, in Grecia, è la gara suprema). Si mette in movimento, con l’estasi divinatoria, un lungo cammino, accidentato, e la natura della parola, attraverso la lotta degli individui, è la più pertinente per un’azione a distanza, indiretta, come si addice ad Apollo l'”Obliquo”. Attraverso la parola della sapienza Apollo, secondo il suo epiteto, colpisce da lontano e colpisce lontano.
Colli, La sapienza greca
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