Appunti di Storia della Stampa Periodica (4)

Capitolo Quarto

 

LE RISPOSTE DELL’EDITORIA PERIODICA

AL DIVENIRE DELLA CARTA STAMPATA

 

  1. Il declino dell’editore “fai da te”

 

Come ha reagito l’editoria medio-piccola alle mutazioni che hanno sconvolto il mercato della carta stampata e il modo tradizionale di produrre periodici?

 

La stampa minore come ha risposto alla rivoluzione del pc e al sommovimento internettiano?

 

A partire dalla metà degli anni ’80, mentre cambiarono il gusto e le esigenze dei lettori per effetto del mutamento degli stili di vita, il mercato innalzò barriere impietose per i piccoli editori e fissò più severi indici di concorrenza.

 

Si trasformò la professione del giornalista, mentre il direttore non badò più solo ai contenuti della testata, ma anche al bilancio aziendale e agli aspetti commerciali.

 

Si modificarono anche le componenti dell’estro armonico dell’editore tra le quali tradizionalmente primeggiava la creatività. Il modello dei grandi inventori di testate, come Longanesi e Mazzocchi e dei sofisticati scopritori di nicchie dai palati fini come Franco Maria Ricci, cedette il passo ad imprenditori che sapessero coniugare inventiva e rigore manageriale, manovrando le leve del marketing per la conquista e la fidelizzazione di lettori piuttosto volubili.

 

In questo capitolo cercheremo di vedere come le grandi mutazioni del sistema dei media – che espressero anche le trasformazioni della società italiana – si siano ripercosse nel microcosmo dell’editoria periodica “minore”. Ma soprattutto – nell’economia di questo racconto sommario – cercheremo di illuminare i momenti di sviluppo e di crisi dell’area USPI che, tra la metà degli anni ’80 e la fine degli anni ’90, vide uscire di scena l’editore “fai da te”.

 

In alcuni anni le testate chiusero i battenti al ritmo di due – tre al giorno, mentre riuscirono a sopravvivere quelle edite da aziende che arrivarono a realizzare un consistente sforzo di modernizzazione.

 

La visione tumultuosa del cambiamento si affacciò puntualmente negli stessi temi dei Congressi dell’USPI. “Le nuove frontiere della stampa periodica” presero a profilarsi a Prato, nel X Congresso (10-12 novembre 1983), dove un’intera giornata fu riservata a “Le nuove tecnologie” e – per la prima volta – fu esaminato lo studio di un sistema integrato IBM per la gestione e la produzione di testi ed immagini.

 

Due anni dopo, all’XI Congresso di Fiuggi (14-18 aprile 1985) “Le tecniche dell’informazione e il ruolo della stampa periodica” furono al centro dell’attenzione non solo in relazione alle nuove tecnologie, ma anche con riguardo alla funzione del periodico nell’informazione di massa e al nuovo linguaggio della carta stampata.

 

Nella relazione di base il sociologo della comunicazione Enrico Mascilli Migliorini indicò due percorsi: “Restituire alla funzione informativa una propria dimensione comunicativa specializzata e ridefinire il rapporto con il territorio: queste le strade che la stampa periodica deve percorrere per allontanarsi dalla terra di nessuno in cui il giornalismo quotidiano tende a relegarla”.

 

            Il pericolo della sclerosi dell’informazione di massa preoccupò anche Gaspare Barbiellini Amidei che nella relazione su “Linguaggio e nuove forme della comunicazione nella società che cambia” osservò: “Per il superamento dell’incomunicabilità fra i diversi mass media, la stampa periodica – con la sua nativa capacità di rimeditare e di ricomporre le notizie – può svolgere un ruolo assai importante di raccordo e di crescita culturale”.

 

Fondamentale per la professionalizzazione dei piccoli editori fu anche il XII Congresso di Rimini su “La stampa periodica nella società di domani” (29-31 ottobre 1987) dove Giuseppe De Rita, pur esaltando le funzioni della stampa locale, additò ai piccoli editori una terza via. Il Segretario Generale del CENSIS rilevò, infatti, che “tra l’oligarchia delle pubblicazioni medio-alte e i giornali locali rimane aperto un mercato intermedio, che può rivolgersi ad un pubblico che ha studiato di più, che vuole sapere di più”.

 

“I nuovi scenari per la stampa periodica” continuano a dominare anche il XIII Congresso di Montesilvano (24-26 gennaio 1990) dove Roberto Formigoni, Vice Presidente del Parlamento europeo, affaccia le ragioni informative e culturali della nuova Europa, auspicando “un sistema editoriale che assicuri un posto decisivo alle piccole imprese editrici…”.

 

In quegli anni l’USPI prospettò per la prima volta ai pubblici poteri un tema delicato che avrebbe tenuto banco fino ai nostri giorni: la crescita della quota di pubblicità rastrellata dalla TV a scapito delle risorse per la carta stampata.

 

Nel 1985, infatti, l’Unione fece pressione sulla Commissione Parlamentare di Vigilanza sulle Radiodiffusioni perché controllasse l’assorbimento pubblicitario effettuato dalle radiotelevisioni pubbliche e private. Mossa anche da questa richiesta, la Sottocommissione Parlamentare per la pubblicità decise di svolgere un’indagine conoscitiva. Ma, un anno dopo, il faraonico Congresso della Pubblicità a Roma (23-26 ottobre 1986) dimostrò lo strapotere di un mondo che, attraverso un patto fra RAI-TV, SIPRA, UPA e FIEG, fece sì che il 95% della pubblicità (anche quella della Pubblica Amministrazione e delle aziende a partecipazione statale) restasse monopolio della grande industria e quindi della grande editoria.

 

La vertenza per il rinnovo della legge per l’editoria spinse l’USPI a cercare collegamenti e alleanze con altri organismi sindacali e ad allargare la sua base associativa. Si costruiscono intese con l’UISPER (stampa per i ragazzi), con l’ASMI (stampa medica), con la FISC (settimanali cattolici), con l’ANSPAEG (settimanali di annunci economici) e, negli anni ’90, con la CONFAPI.

 

L’affermazione sul mercato di alcuni comparti, come i fumetti, la stampa giovanile, le riviste scientifiche e professionali, gli specializzati, i periodici d’informazione territoriale determinano quote consistenti di nuovi soci e qualificate presenze negli organi nazionali dell’USPI.

 

Il problema di fondo resta comunque quello di trasformare l’editore amatoriale in un imprenditore specializzato.

 

  1. Il contributo dell’USPI alla professionalizzazione degli editori medio-piccoli

 

A partire dalla metà degli anni ’80 l’USPI comprese che all’editore tuttofare bisognava sostituire la piccola impresa editrice composta da pochi esperti professionalmente affidabili, e capì anche che il mercato poteva essere affrontato più serenamente o pubblicando più testate con conseguenti economie di scala, o affidandosi anche ad una sola testata, ma di tiratura consistente che si rivolgesse ad un target ben mirato, appetibile per gli inserzionisti pubblicitari.

 

In una conferenza stampa resa nel 40° dell’USPI un giornalista chiese al Presidente Di Gravio quali strategie suggeriva ai giovani che avessero voluto creare un’impresa editrice di periodici. Di Gravio diede questi testuali consigli pratici che riflettono l’assillo della professionalizzazione e dell’aziendalizzazione di quegli anni: “Una visione imprenditoriale comporta, in primo luogo, una forte attenzione alla concorrenza italiana e alla produzione europea, non tanto per rubare formule vincenti quanto per diversificarsi dalle testate concorrenti, accenttuando l’originalità della pubblicazione: una piccola nicchia di mercato è più redditizia di un target generico e impreciso.

 

Suggerirei poi di orientare i contenuti redazionali al cliente-lettore, attraverso l’impiego di una ricerca di mercato. Gli esperti di marketing si dividono in due categorie: nella prima ci sono quelli che credono nelle domande individuali d’informazione e quindi nelle risposte personalizzate; altri ritengono che il consumatore non sappia cosa voglia ma sia sempre assetato di novità. Ad una nuova testata suggerirei di pubblicare più servizi pratici e meno articoli teorici, più informazioni utili che notizie sorprendenti. Quando un periodico è veramente utile e interessante anche una elegante veste grafica (da molti – a mio avviso – troppo sopravvalutata) diventa piacevole ma non indispensabile.

 

Lo stesso direi del prezzo di copertina: quando il periodico serve veramente agli abbonati e ai lettori, il costo diventa una variabile quasi indipendente. Un ultimo consiglio  lo riserverei alla scelta dei collaboratori: non è importante “come” dar vita ad un’editrice ma “con chi”. Sì, dunque, al professionismo – retribuito adeguatamente – no al dilettantismo a basso costo: in questi anni l’identificazione degli uomini con lo stile d’impresa è fondamentale per il conseguimento del successo”.

 

Il contributo più efficace alla modernizzazione e alla trasformazione imprenditoriale dell’editoria “minore” fu dato dall’USPI in termini di formazione professionale.

 

Nel 1988 il prof. Mascilli Migliorini, Preside della Facoltà di Sociologia dell’Università di Urbino e il Segretario Generale dell’USPI, Zuccalà, rilevarono che mentre l’Italia pullulava di corsi per giornalisti, mancava una qualsiasi iniziativa formativa che fornisse agli editori o agli aspiranti editori le conoscenze professionali di base e gli aggiornamenti dettati dal divenire della carta stampata. Si pensò soprattutto ai piccoli editori e ai giovani e nacquero così gli stages residenziali estivi tenuti, ogni anno, nel mese di settembre nel Collegio universitario del Colle, in collaborazione – per la parte scientifica – con la Facoltà di Sociologia dell’Università urbinate e in convenzione – per la parte logistica – con l’ERSU. Gli stages – a quota di partecipazione politica – furono aperti a tutti gli operatori editoriali anche di testate non iscritte all’USPI.

 

Il programma che comprendeva le conoscenze propedeutiche sulla sociologia della comunicazione, il diritto editoriale, la legislazione della stampa, le provvidenze statali, fu svolto da docenti universitari, legali ed esperti tra i quali ricordiamo lo stesso prof. Mascilli Migliorini, il prof. Alberto Zaccaria, la prof.ssa Alessandra Valastro, la prof. Gabriella Mazzoli, il prof. Ugo De Siervo, gli avvocati Luca Boneschi e Corso Bovio, i funzionari della Presidenza del Consiglio Anna Maria Muolo ed Enrico Longo, qualificati rappresentanti dell’Ufficio del Garante per l’editoria e, dal 2001, dell’Autorità per le Garanzie nelle comunicazioni.

 

Le componenti essenziali della gestione editoriale come la struttura e le tendenze del mercato, la distribuzione postale e in rete, la deontologia professionale, la raccolta pubblicitaria e la disciplina fiscale furono spiegate da giornalisti e consulenti di grande impatto professionale come Gianni Faustini, Saverio Barbati, Costantino Cavallini, Umbertomaria Bottino, Luigi Guastamacchia, Vasco Mati, Tiziano Bienati  Dino Cosi, e Giancarlo Cinoglossi; ogni stage fu, infine, concluso con un quadro della situazione categoriale tracciato dal Segretario Generale.

 

Di anno in anno il programma di base fu integrato con moduli di aggiornamento sulle innovazioni tecnologiche somministrati da tecnici di Apple computer, della Scuola di avviamento al giornalismo di Urbino (che curò l’alfabetizzazione elettronica degli stagisti), di Promedia expert (marketing editoriale) e di Promotion Digitale (siti web e periodici elettronici).

 

Tra il 1997 e il 2002 i corsi di Urbino furono frequentati da 691 operatori editoriali. Nello stesso arco di tempo le iniziative di sostegno alla formazione e all’aggiornamento degli editori medio-piccoli furono integrate con un più nutrito ventaglio di consulenze gratuite, con un adeguato sviluppo dei commentari legislativi contenuti nella “Guida della stampa periodica italiana” e con incontri locali realizzati dai Fiduciari regionali.

 

Una spinta ai piccoli editori a migliorare la propria cultura d’impresa e a contare solo sulle proprie forze venne anche dai deludenti bilanci e dal declino degli aiuti statali.

 

In una lezione al 15° stage di Urbino del 1992, Anna Maria Muolo, Dirigente generale dell’Ufficio per l’editoria e per la stampa della Presidenza del Consiglio ricordò che le difficoltà d’interpretazione della legge 416/’81 furono tali che, in alcuni casi legati alla sussistenza del carattere “culturale” dei periodici, lo Stato, dopo aver avuto torto in Cassazione pagò i contributi dovuti agli editori per gli anni ’81/’85 nel 2000.

 

Schematizzando al massimo l’evoluzione di mentalità sviluppatasi in quegli anni, si può ritenere che alle illusorie speranze sulle provvidenze statali gli editori medio-piccoli, negli anni ’90, andarono gradualmente sostituendo l’affidamento all’autonomia economica basata più sulla cultura d’impresa che sui modesti e tardivi aiuti diretti dello Stato.

 

  1. La rivoluzione elettronica

 

Un secondo rilevante fattore di modernizzazione della stampa periodica fu l’avvento del pc e la sua applicazione alle piccole realtà editoriali e redazionali.

 

Sul finire degli anni ’80 la cultura elettronica entrò prepotentemente nelle strategie delle microaziende editrici soprattutto quando le nuove tecnologie si proposero a prezzi contenuti. Al costo di una utilitaria gli editori, anche i più modesti, si dotarono in massa di pc, stampante, scanner, modem e programmi di composizione, impaginazione e gestione editoriale.

 

Nei Congressi, nei Convegni regionali, agli stages di Urbino l’USPI spinse fortemente i soci ad avvalersi dell’elettronica per renderli indipendenti dagli stabilimenti tipografici almeno nel segmento della digitazione e dell’impaginazione dei testi. Le bozze in pochi anni furono sostituite dai dischetti.

 

E’ indicativo che nel 1996 il modulo di alfabetizzazione informatica dovette essere eliminato dal programma degli stages di Urbino poiché la totalità degli operatori editoriali partecipanti padroneggiava adeguatamente le nuove tecnologie.

 

L’impiego diffuso dei piccoli sistemi elettronici contribuì fortemente all’ascesa dell’editoria periodica medio-piccola da secondo mercato marginale a componente di rilievo dell’industria editoriale. Meravigliando la platea del XVI Congresso (1999), Luigi Guastamacchia rivelò che nel 1998 ai 537 miliardi di vecchie lire di fatturato diffusionale della Mondadori e ai 237 della Rcs, fecero fronte i 2050 miliardi dell’editoria medio-piccola, la cui quota di fatturato diffusionale superò il 60% del settore. Questa preponderanza persiste grosso modo anche oggi, confermando lo scenario di un comparto di aziende di medie e piccole dimensioni che produce testate di nicchia destinate a pubblici non ampi, ma capaci di premiare iniziative creativamente valide.

 

  1. La contrattualizzazione dei dipendenti e dei collaboratori dell’area USPI

 

Fino alla prima metà degli anni ’90 nell’area USPI fu abbastanza diffuso il riferimento al tariffario dell’Ordine dei giornalisti per le collaborazioni libero – professionali. Le piccole testate preferirono i free-lance ai giornalisti a tempo pieno per evitare i costi proibitivi del Contratto FIEG. D’altro canto il problema si poneva più per le aziende di medie dimensioni, dove in genere almeno il direttore e il caporedattore erano iscritti all’Ordine ed erano assunti a tempo pieno, che non per le piccole realtà redazionali dove solo il direttore era iscritto all’Ordine e nessuno dei collaboratori era a tempo pieno.

 

Aggiungasi che l’esigenza di giornalisti dipendenti era avvertita solo in una parte dell’area USPI, come ad esempio quella dei settimanali d’informazione locale e dei periodici specializzati, mentre in vasti comparti come quelli delle riviste scientifiche e culturali, delle pubblicazioni religiose, della stampa sindacale ed associativa, dei periodici degli Enti pubblici e locali, l’esigenza di contrattualizzare il personale era meno sentita.

 

Per queste ragioni il clima delle relazioni sindacali tra piccoli editori e giornalisti non fu mai particolarmente conflittuale. Restò però sospesa nelle mani del giornalista la spada di Damocle del Contratto unico che poteva essere reclamato davanti al Magistrato anche a distanza di anni dall’assunzione e da un accordo scritto serenamente negoziato.

 

Nella prima metà degli anni ’90 il Segretario Generale dell’USPI, Zuccalà cercò con il Segretario della FNSI Santerini una soluzione reclamata non solo dall’incertezza e dalla confusione causate dalla mancanza di un contratto specifico dell’area USPI, ma anche dallo sviluppo raggiunto da centinaia di aziende medio-piccole la cui cultura d’impresa mal tollerava rapporti di lavoro anomali con il personale addetto a mansioni giornalistiche. I tempi però non erano ancora maturi poiché l’unicità del contratto FIEG prevista dalla legge costituiva ancora un tabù.

 

Interpretando le difficoltà economiche delle piccole e medie imprese editoriali ad applicare il Contratto unico, nato, concepito e costruito per i grandi quotidiani editi dai trust editoriali e per i periodici a grande diffusione pubblicati dai colossi dell’editoria pura, l’USPI prese a guardare con interesse al Contratto delle piccole e medie aziende grafico-editoriali aderenti alla CONFAPI, che disciplinava alcune figure redazionali presenti nelle testate associate.

 

Il 13 marzo 1996 segnò la prima importante tappa del processo di contrattualizzazione avviato come fattore di chiarezza nei rapporti di lavoro e come elemento di sviluppo della stampa periodica: l’USPI negoziò e firmò l’adesione al contratto di lavoro 1996-2000, stipulato dall’UNIGEC-CONFAPI con CGIL, CISL e UIL, nonché il successivo contratto 17 luglio 2001 per il triennio 2001-2004, che assunse una nuova significativa denominazione: mentre quello precedente riguardò “i dipendenti delle piccole e medie aziende grafiche, editoriali e affini”, quello attuale riguarda “i dipendenti delle piccole e medie aziende della Comunicazione, dell’Informatica e dei Servizi Innovativi”.

 

Il Contratto venne proficuamente applicato ai redattori non iscritti all’Ordine dei giornalisti e ai collaboratori tecnici o amministrativi rivestenti i seguenti profili professionali:

 

1) “coordinatore di redazione di pubblicazione periodica” (2° livello retributivo);

 

2) “redattore editoriale” (2° livello);

 

3) “operatore redazionale” (3° livello);

 

4) “infografico” (3° livello);

 

5) “grafico impaginatore” (3° livello);

 

6) “correttore di bozze” (3° livello);

 

7) “segretario di redazione” (3° livello);

 

8) “grafico” (4° livello);

 

9) “operatore specialista in servizi fotografici esterni” (4° livello);

 

10) “redattore di pubblicazione periodica di prima esperienza in fase di inserimento” (6° livello), acquisisce dopo due anni il 2° livello;

 

11) “operatore redazionale di pubblicazione periodica di prima esperienza in fase di inserimento” (6° livello), acquisisce dopo due anni il 3° livello.

 

L’Ordine dei giornalisti di Milano guardò con comprensione ed interesse al contratto CONFAPI – USPI ritenendo, ad esempio, che il percorso dei redattori di prima esperienza, in fase di inserimento, potesse essere valido per l’accesso alla professione giornalistica ed esprimendo l’opinione che i redattori assunti con contratto CONFAPI potessero essere iscritti all’INPGI.

 

Alla fine del secolo scorso la crisi dell’occupazione giornalistica, l’emergere di nuovi modi di fare informazione, il superamento della centralità del lavoro subordinato, i pubblicisti del 12%, i free-lance, il popolo dei giovani neo-laureati nella facoltà di Scienze delle comunicazioni che bussavano alle piccole redazioni per firmare qualche pezzo, resero ancora più magmatici i rapporti di collaborazione.

 

Nel 1992 i giornalisti iscritti nelle liste di disoccupazione erano 261 (e tra essi 7 praticanti) su una popolazione di circa 15.000 unità mentre nel 2001 il numero dei disoccupati era salito a 2.158 giornalisti (e 173 praticanti) su una popolazione di circa 21.000 unità. Nel decennio dunque ad una crescita di popolazione giornalistica del 30% corrispose un aumento della disoccupazione pari a 10 volte.

 

E’ anche significativo che la percentuale degli iscritti all’INPGI 2 – la Cassa di previdenza istituita per i giornalisti autonomi – dal 1998 al 2002 passò da 4.592 a 12.205 iscritti con un incremento di quasi il 200%, a dimostrazione della tumultuosa perdita di centralità del giornalismo dipendente.

 

La situazione si fece complicata e difficile per gli editori medio-piccoli e per la Federazione della Stampa che, nell’ambiguità di rapporti di collaborazione non contrattualmente definiti, colse fenomeni di marginalità professionale che stridevano con le condizioni dei giornalisti contrattualizzati. Da editori e giornalisti si invocò la flessibilità anche retributiva e si reclamarono certezze nei rapporti di collaborazione.

 

Un frutto rilevante di queste consapevolezze fu l’Accordo tra la Federazione emittenti delle radiotelevisive locali aderenti al coordinamento AER-ANTI-CORALLO e la Federazione della Stampa, firmato il 3 ottobre 2000. L’Accordo fece seguito ad un Contratto firmato il 9 luglio 1999 tra la Federazione Radio Televisioni (a cui aderivano, oltre alle Tv e le Radio locali le tre reti Mediaset e le due Tele+) e i Sindacati confederali  CGIL, CISL e UIL.

 

L’accordo AER-ANTI-CORALLO aprì un varco nel principio di unicità del contratto dei giornalisti e spuntò una riduzione rilevante rispetto al costo dell’accordo FIEG[1].

 

Si propose quindi con maggiore evidenza, sia per l’USPI che per il Sindacato, l’occasione storica di fare chiarezza nei rapporti di lavoro dell’editoria medio-piccola conciliando – come erano riuscite a fare le piccole aziende radiotelevisive – le innegabili specificità del comparto con le giuste esigenze di garanzia dei giornalisti.

 

Nell’estate del 2001 si aprirono le trattative tra USPI e Federazione della Stampa che fin dai primi due incontri si prospettarono non brevi né facili.

 

Al XXIII Congresso della Federazione della Stampa, aperto a Montesilvano nel novembre 2001, il Segretario Generale dell’USPI, Vetere tratteggiò il primo nodo del negoziato, spiegando che l’Unione, oltre a rappresentare poche centinaia di testate edite da una quarantina di aziende di medio capitale, associava ben 2800 periodici di piccole aziende monoprodotto il cui fatturato annuo non superava il miliardo di lire.

 

“Le aziende di medio capitale – osservò Vetere – occupano prevalentemente giornalisti a tempo pieno e collaboratori fissi, mentre le micro aziende si avvalgono prevalentemente di collaborazioni coordinate e continuative di giornalisti-autori che offrono collaborazioni occasionali”.[2]

 

Fu dunque chiaro alle due parti che la sfida era di inventare soluzioni contrattuali per i giornalisti dipendenti e per i giornalisti autonomi contenendo i costi dell’accordo, e segnatamente quelli degli automatismi e degli oneri riflessi, entro limiti economici sostenibili.

 

Nel luglio 2002 si giunse ad una prima ipotesi di regolamento per le collaborazioni coordinate e continuative che avrebbe potuto interessare una parte considerevole dei collaboratori impiegati nelle testate associate all’USPI.

 

La delegazione sindacale nel novembre 2002 presentò notevoli modifiche allo schema iniziale, introdotte dalla Commissione Contratto della Federazione, modifiche che vennero in buona parte ritenute inaccettabili dalla delegazione USPI.

 

Si aprì così una fase di riflessione i cui esiti – almeno al momento di chiudere questo lavoro – appaiono ancora molto incerti.

 

 

 

 

  1. La distribuzione, leva strategica dell’editore di periodici

 

Mentre la cultura d’impresa e la rivoluzione elettronica, come abbiamo visto, riguardarono il “divenire”, lo sviluppo e la modernizzazione dell’editoria “minore”, da sempre la distribuzione fu condizione funzionale all’ “essere”, all’esistere e al sopravvivere della stampa periodica.

 

E’ inutile infatti produrre un buon periodico, ricco di contenuti interessanti, scritto bene, stampato in buona veste grafica, se poi non arriva con certezza e tempestività a casa degli abbonati, attraverso la distribuzione postale, o sotto gli sguardi dei lettori abituali o potenziali, attraverso la rete dei punti vendita.

 

La distribuzione è sempre stata il chiodo fisso dell’editore, una leva strategica di affermazione delle testate piccole, medie e grandi che attraversa vivamente gli ultimi cinquant’anni della storia della carta stampata.

 

Questa esigenza vitale degli editori spiega l’impegno che l’USPI profuse, fin dal suo sorgere, per ottenere dalle Poste un servizio efficiente a prezzi ragionevoli e, a partire dagli anni ’70 per coltivare rapporti ed accordi con gli organismi rappresentativi della distribuzione in edicola.

 

  1. Le guerriglie postali dell’editoria medio-piccola

 

In forma schematica, il tormentato percorso delle vertenze postali sostenute dall’USPI in difesa dei periodici di piccole e medie dimensioni può articolarsi in tre fasi: quella delle denunce politiche dei disservizi (anni ’50-’80), quella dei ricorsi amministrativi contro gli indebiti aumenti tariffari (anni ’90) e quella della lotta per l’abolizione della riforma postale introdotta con la Finanziaria 1999[3].

 

Negli anni ’50 e ’60 le proteste dei piccoli editori sui disservizi dell’Amministrazione Postale, all’epoca controllata dal Ministero PP.TT., furono portate dall’USPI a livello ministeriale, politico e parlamentare. E’ rimasto memorabile il discorso dell’allora V. Presidente della Camera, on. Oscar Luigi Scalfaro che il 30 novembre 1976 in merito al ricorrente problema postale fece sue le ragioni dei piccoli editori[4].

 

Negli anni ’70, alle proteste contro i disservizi, si aggiunsero motivate opposizioni agli aumenti tariffari che il Ministero PP.TT. cercò reiteratamente di introdurre insieme con sempre più macchinosi adempimenti burocratici.

 

In quegli anni si aprì anche la vertenza per l’allineamento del trattamento tra stampa periodica e quotidiana, dal momento che a parità di peso i periodici pagavano tariffe sensibilmente superiori a quelle dei quotidiani.

 

Un ennesimo tariffario postale, annunciato con DPR 12 ottobre 1976, scatenò una campagna di stampa promossa dall’USPI e caratterizzata da una vignetta che visualizzò efficacemente un cappio che strangolava un giornale. La didascalia avvertiva che “spedire un periodico costerà all’editore il 900% in più. La tiratura diminuirà di milioni di copie. Ogni cittadino deve sapere: con la stampa periodica muore la democrazia”.

 

Il “cappio” riportato più volte sulle testate associate all’USPI, produsse una valanga di ritagli stampa che approdarono ai piani alti del Ministero e dell’Amministrazione Postale, nonché – a cura dell’Unione – in tutte le sedi istituzionali e politiche.

 

Quella campagna, oltre a strappare un nuovo decreto con tariffe ridotte, rinsaldò fortemente lo spirito categoriale dell’area USPI.

 

Nel 1981, il Ministro PP.TT., Gaspari, uno degli uomini di governo più concretamente sensibile alle ragioni della stampa periodica, formulò uno schema di provvedimento che estendeva la riduzione del 50% delle tariffe postali, introdotta dalla legge n. 416/’81 a favore di quotidiani, settimanali e mensili, a tutti i periodici. Per effetto di una crisi di Governo bisognò attendere il 25 febbraio 1983 per vedere il decreto n. 49 sulla Gazzetta Ufficiale.

 

Nel 1988 si aprì la seconda fase della vertenza postale protrattasi per un decennio: quella dei ricorsi al TAR ed al Consiglio di Stato che ebbe a protagonista l’avv. Dario Di Gravio, prima Vice Presidente dell’USPI e poi – dal 1992 – Presidente dell’Unione, succeduto a Vittorio Ciampi.

 

Al di là delle schermaglie giuridiche e dei rilievi formali la tesi sostanziale dell’USPI entrava in rotta di collisione con quella dell’Amministrazione Postale su questo punto: gli aumenti tariffari erano improponibili poiché non erano giustificati da alcun miglioramento dei servizi. Le Poste sostenevano invece che con tariffe fuori mercato era impossibile migliorare il servizio universale di distribuzione delle stampe.

 

Il TAR del Lazio annullò le tariffe interne del 1991, quelle di spedizione all’estero del 1992 ed anche le tariffe interne 1992-93.

 

Per ridurre il contenzioso amministrativo il ministro PP.TT. Pagani aprì un tavolo negoziale con FIEG, USPI ed AIE.

 

L’USPI, in quella sede, propose un recapito, a tariffa maggiorata, per la distribuzione dei settimanali d’informazione entro 24 ore, ma il Direttore Generale Veschi eccepì lealmente che l’Amministrazione non era ancora attrezzata per un recapito rapido dei giornali. Pochi anni dopo l’Ente Poste trasformato in Azienda realizzerà con successo il recapito rapido delle lettere attraverso la “posta prioritaria”.

 

Mentre le poco difendibili tesi dell’Amministrazione Postale soccombono nei giudizi amministrativi promossi dall’USPI, l’on. Raffaele Costa, specializzato nello scoprire magagne nella Pubblica Amministrazione, denuncia che la corrispondenza impostata a Milano viene caricata su aerei, portata a Palermo per lo smistamento, e poi riportata smistata a Milano; denuncia anche che di 8000 postini assunti in servizio negli ultimi anni, ben 7700 sono passati, entro breve periodo di tempo, al grado superiore e non effettuano più consegne.

 

L’Amministrazione Postale sconfitta nei Tribunali amministrativi cambia gioco e cerca  rivincite nelle leggi finanziarie per abolire le tariffe agevolate.

 

Come abbiamo già visto nel precedente capitolo pochi giorni prima del XIV Congresso (Montesilvano, 24-26 giugno 1993) il Governo attraverso il D.L. 22 maggio 1993 n. 155 tentò di abolire la riduzione del 50% delle tariffe postali, prevista dalla legge 416/’81 e di introdurre una tariffa unica che sarebbe stata micidiale per i piccoli editori.

 

La manovra non riuscì, ma anche il successivo XV Congresso (Montesilvano 3-5 ottobre 1996) conobbe la minaccia proveniente da uno schema di legge finanziaria, per l’anno 1997, che aboliva il rimborso agli editori di 200 lire a copia sostituendolo con aiuti per 300 miliardi di lire.

 

Anche questa volta la minaccia fu disinnescata, ma intanto si era formato un “partito” favorevole ad una riforma postale che cancellasse definitivamente le tariffe postali agevolate.

 

  1. La battaglia per la difesa delle tariffe postali agevolate

 

I cambi della guardia nelle associazioni sindacali comportano un’eredità di vertenze che devono essere gestite in corsa, senza beneficio d’inventario.

 

Vedremo nel prossimo capitolo i fascicoli più ponderosi che Francesco Saverio Vetere, succedendo a Gian Domenico Zuccalà il 12 novembre 1999, trovò sul suo scrittoio di Segretario Generale dell’USPI. Ma poiché questo sommario storico è per argomenti e poiché stiamo trattando la vertenza postale dobbiamo qui sottolineare che il nuovo Segretario Generale si trovò a gestire l’improbabile rivincita di una Caporetto postale fortemente pregiudizievole per tutte le testate periodiche. Ci riferiamo alla c.d. riforma postale introdotta con la legge 23 dicembre 1998 n. 448, collegata alla Finanziaria 1999, che intese sostituire il collaudato sistema delle tariffe ridotte con un macchinoso sistema di rimborsi successivi, finanziato con un fondo annuo iniziale di 400 miliardi decrescente nel tempo e destinato agli editori di libri, quotidiani, periodici e pubblicazioni di associazioni no profit.

 

Non fu semplice risalire la china. La Segreteria Generale si attivò subito verso tutte le forze politiche e governative tentando una non facile mediazione trasversale. Pazientemente smantellò le tesi ragionieristiche dei funzionari del Ministero del Tesoro e quelle darwinistiche dei tecnici di Corrado Passera che impropriamente lanciarono tra i piedi degli editori anche una Direttiva europea, interpretata in modo distorto.

 

Si formò così un fronte parlamentare del differimento e la riforma che doveva partire il 1° gennaio 2000 fu prorogata tre volte, al 2001, al 2002 e al 2003 con conseguenti sostanziosi risparmi delle spese postali che evitarono la chiusura di piccole testate. Tra i più sensibili difensori dell’editoria medio-piccola si distinsero l’on. Vincenzo Vita, Sottosegretario al Ministero delle Comunicazioni nei governi di centro-sinistra, l’on. Giuseppe Giulietti responsabile delle politiche editoriali dei DS, e, con l’avvento del Governo Berlusconi, il Ministro delle Comunicazioni Gasparri e il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, con delega per l’editoria, Paolo Bonaiuti. Fu soprattutto grazie a lui che il fronte del differimento si trasformò in un no trasversale alla riforma postale, a cui aderì anche la Federazione della Stampa.

 

Di indubbia utilità fu anche l’impegno della FISC e del CONSIS.

 

Scavalcando i discorsi piccini dei funzionari del Tesoro e quelli del marketing dell’azienda Poste italiane, Vetere impostò la vertenza in termini nuovi invocando risposte politiche ispirate a principi alti di pluralismo e democrazia, “riportando i ragionieri nei loro ambiti, dove potranno far di conto senza toccare i principi fondanti di questo Paese”[5].

 

Questo estenuante lavoro di sensibilizzazione volto ad ottenere la riforma delle tariffe postali o, in via subordinata, una ulteriore proroga delle tariffe agevolate per il 2003 approdò alla Legge 27 dicembre 2002 n. 284 (G.U. 28.12.02 n. 303) che, per l’appunto, sancì una quarta proroga annuale delle tariffe.

 

Nel contempo il DPCM 27 novembre 2002 n. 294 (G.U. 2.1.103 n. 1) escluse dalle agevolazioni alcune limitate categorie, come quella dei periodici editi da enti pubblici.

 

La nuova visione della questione postale ridisegnata dall’USPI, lungi dal rispondere ad un’anacronistica concezione assistenziale dell’intervento statale, puntò a favorire l’accesso al mercato di nuovi soggetti medio-piccoli capaci di stimolare la domanda con l’offerta di nuovi e diversificati prodotti culturali. La politica alta ispirata allo sviluppo del pluralismo si collegò così allo sviluppo culturale del nostro Paese alimentato dalla creatività delle piccole e medie aziende editrici e dalla loro capacità di “fare lettura”.

 

  1. La sfida della distribuzione in rete

 

Nel 1985 erano presenti in edicola 1.500 periodici – grandi, medi e piccoli – ma era già affiorata la tendenza dei colossi dell’editoria periodica a moltiplicare la pubblicazione di nuove testate da distribuire in rete trascurando il canale postale.

 

Nell’area USPI l’approdo ai punti vendita era visto dagli editori come un punto d’arrivo, una sorta di “maggiore età” che consentiva ai periodici a diffusione nazionale di proporre la testata almeno nei capoluoghi di provincia e ai periodici d’informazione locale di raggiungere capillarmente i lettori con un canale più rapido e affidabile di quello postale.

 

Il brutto anatroccolo dell’editoria “minore” al pari delle testate di massa volle conoscere l’ebbrezza della diffusione in rete.

 

Per assecondare questa strategia di sviluppo l’USPI firmò il 4 luglio 1986 un contratto con i Sindacati degli edicolanti che, per la prima volta, disciplinò la vendita dei periodici delle aziende medio-piccole e che, negli anni successivi, fu prorogato e rinnovato.

 

L’accordo stabilì i reciproci impegni degli editori e degli edicolanti per una  proficua e ordinata distribuzione delle pubblicazioni con un occhio a talune esigenze dell’area USPI come quella della permanenza in edicola dei trimestrali e dei quadrimestrali oltre i 60 giorni e fino alla naturale scadenza della periodicità, dietro corresponsione di uno sconto supplementare.

 

La strategia di cercare il successo con la corsa alle edicole era largamente condivisa da tutti gli editori se si considera che tra il 1985 e il 1996 il numero dei periodici presenti nei punti vendita si triplicò, passando da 1500 a 4500.

 

Ma la vendita in edicola, non sostenuta da un severo investimento in visibilità, si rivelò illusoria per molti editori, anche non piccoli, che erano approdati in rete sperando di poter far conoscere i propri prodotti al grande pubblico.

 

Negli anni ’90 il sovraccarico di testate fu accentuato da ondate successive di prodotti multimediali (videocassette, CD, CD-Rom) che, usando l’edicola come canale complementare al proprio canale di base, resero sempre più razionato e caotico lo spazio espositivo.

 

Per obiettiva mancanza di spazio l’edicola, anche oggi, vende egregiamente i periodici già conosciuti, grazie a vertiginosi budget pubblicitari, mentre non può avere interesse a togliere il poco spazio disponibile ai prodotti più venduti per mettere in evidenza testate poco note.

 

Contro questa spirale malthusiana – che se non limita le nascite incrementa la mortalità neonatale dei periodici più deboli – l’USPI sostenne le ragioni della parità espositiva, ma anche quelle degli edicolanti intese ad ampliare i punti vendita. Infatti per assicurare parità espositiva tra grande stampa e piccoli periodici e dare a tutti pari visibilità occorrerebbero edicole di 200 metri quadrati.

 

Malgrado questa strozzatura strutturale, una parte delle aziende di medio capitale affrontò con successo la distribuzione in rete grazie all’efficienza della distribuzione nazionale e all’affidabilità delle edicole e dei negozi che dettero volenterose risposte ai problemi della distribuzione. Semmai gli editori medio-piccoli incontrarono le maggiori difficoltà alla diffusione nel segmento intermedio dei distributori locali, compreso tra i distributori nazionali e i punti vendita.

 

Il vero problema degli editori medio-piccoli è di convincere i distributori locali a diffondere i periodici di piccola tiratura: la soluzione potrebbe essere ricercata in un Accordo nazionale che garantisse a tutta la stampa periodica parità distributiva.

 

L’USPI non ha mai condiviso l’obiettivo di una liberalizzazione selvaggia dei punti vendita poiché l’80% delle testate associate che distribuiscono in rete non riuscirebbe a raggiungere un troppo accresciuto numero di punti vendita ed anzi ne risulterebbe penalizzato. Tuttavia l’Unione non si è mai opposta a forme ragionevoli di commercializzazione integrativa alla tradizionale struttura di vendita monolocale delle edicole.

 

La legge 13 aprile 1999 n. 108 avviò una sperimentazione di distribuzione in punti vendita alternativi della durata di diciotto mesi. La sperimentazione fino al 24 novembre 2000, venne effettuata nelle tabaccherie, nei distributori di benzina, nei bar, nei supermercati, nelle librerie e nei negozi specializzati limitatamente alle riviste di identica specializzazione (es. negozi di abbigliamento – riviste di moda).

 

L’allargamento dei punti vendita non dette risultati molto apprezzabili: le vendite nei supermercati furono in maggior parte sottratte alle edicole; bar e tabaccai andarono male e le librerie ebbero un irrilevante indice di vendita: lo 0,1%.

 

Con decreto legislativo 24 aprile 2001, n. 170 (ultimo giorno utile per esercitare la delega prevista dalla legge sulla “sperimentazione”) furono dettate nuove norme per la diffusione della stampa quotidiana e periodica nei punti vendita esclusivi (le edicole) e nei punti non esclusivi (tabaccai, bar, supermercati, ecc.) e fu devoluta alle Regioni la potestà normativa del sistema distributivo.

 

Senza entrare negli aspetti tecnici del Decreto delegato, figlio di una sperimentazione che dette risultati trascurabili per la stampa periodica medio-piccola, registriamo che l’USPI accolse con favore la riaffermazione della parità di trattamento fra le diverse testate, l’inserimento nella disciplina di vendita anche della stampa estera e l’istituzione, presso la Presidenza del Consiglio, di un Osservatorio – composto dai rappresentanti delle Associazioni di categoria più rappresentative – per il monitoraggio della rete.

 

Con circolare n. 3538/c del 28 dicembre 2001 il Ministero delle Attività Produttive fornì opportune precisazioni sul decreto legislativo n. 170/2001, approfondendo il concetto di parità espositiva assai sentito dagli editori medio-piccoli di riviste specializzate.

 

Dal 2002 le Regioni presero ad emanare gli “atti di indirizzo” attuativi del decreto 170/2001 per la disciplina da parte dei Comuni degli aspetti regolativi, delle modalità e delle condizioni di vendita di quotidiani e periodici.

 

Le edicole rappresentano un approdo affidabile per la stampa periodica e il loro ampliamento deve avvenire attraverso un’oculata pianificazione da parte dei Comuni in base agli indirizzi delle Regioni.

 

Il nuovo sistema di distribuzione lasciò irrisolto sia il problema espositivo dovuto alla limitazione degli spazi dei punti vendita sia quello, più arduo, della distribuzione locale dai centri regionali alle edicole.

 

Per un’ironia della storia, mentre si discuteva animatamente la riforma della distribuzione reale in rete i primi periodici elettronici sperimentavano la semplicità della diffusione on line e la Rete con la R maiuscola lanciava la sua sfida democratica agli editori grandi, medi e piccoli. Dal peso materiale della carta stampata si stava passando alla leggerezza immateriale del cyberspazio.

[1] Cfr. “I dati di confronto tra il CCNL 3/10/2000 Aer-Anti-Corallo/FNSI, il CCNL 9/7/1999 FRT/SLC-CGIL, FISTel – CISL, UILSIC – UIL, il CCNL 16/11/1995 FNSI-FIEG” in “TeleRadiofax“, periodico di coordinamento Aer-Anti-Corallo, n. 19 del 14 ottobre 2000

[2] Il testo dell’intervento è riportato integralmente nel “Notiziario USPI” di gennaio 2002.

[3] Cfr. F.S. VETERE, “Discorso sull’editoria, I volume, La riforma delle agevolazioni postali”, USPI, Roma 1992, pp. 5-23.

[4] Il testo è riportato in D. Volpi – G. Cinoglossi, op.cit., pp. 7-8.

[5] F.S. VETERE, op.cit. pp. 11 – 12. Questo libro testimonia come l’USPI affrontò negli anni il pericolo della riforma postale, impedendo conseguenze devastanti per la stampa periodica.

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